Covid-19 e salute cardiovascolare: appello alla consapevolezza nutrizionale per una efficace prevenzione: abbiamo un’arma in più
Sottotitolo: una recente metanalisi conferma il ruolo protettivo dell’acido alfalinolenico nella dieta.
Antonio Vittorino Gaddi (*) e Valentina Bosio (^)(*)
(*) Società Italiana Telemedicina – Bologna, (^) Bergamo.
L’attuale pandemia da SARS-COV-2 ha dimostrato avere un impatto devastante sul sistema socio-sanitario. La Cardiologia, rispetto ad altri contesti clinici come la pneumologia e le malattie infettive, sembrava essere interessata dal problema solo marginalmente.
In realtà, le implicazioni di tipo cardiologico del COVID-19 sono tutt’altro che trascurabili e le correlazioni tra infezioni da virus respiratori e rischio cardiovascolare sono molteplici.
Il decorso dell’infezione virale si ipotizza procedere attraverso tre step:
- La replicazione virale nelle vie superiori dell’apparato respiratorio che può, o meno, interessare i polmoni;
- Il verificarsi di effetti citotossici diretti, che provocano insufficienza respiratoria e sindrome da distress respiratorio ;
- La risposta dell’ospite attraverso uno stato iperinfiammatorio sistemico extra-polmonare.
Nella prima fase, SARS-CoV-2 si lega al proprio bersaglio utilizzando il recettore dell’enzima di conversione dell’angiotensina 2 sulle cellule umane e l’infezione si presenta solitamente con sintomi respiratori lievi.
Nella fase intermedia i pazienti sviluppano polmonite virale con tosse, febbre e possibile ipossia.
Una minoranza può poi giungere allo stadio più grave della malattia, in cui si assiste all’innalzamento di numerosi markers infiammatori tra cui IL-2, IL-6, IL-7, TNF-α, IFN-γ e CRP per l’intervenire di una tempesta citochinica (1). Ciò si traduce anche in una diminuzione delle cellule immunitarie T helper sia soppressorie che regolatorie (2).
Il verificarsi di questi eventi si associa ad un rischio molto più elevato di esiti fatali e a danni multiorgano per coloro che sopravvivono.
In particolare, pazienti con sindromi cardiovascolari pregresse, presentano un rischio maggiore di sviluppare forme severe di COVID-19 e di avere una prognosi negativa.
Una meta-analisi condotta includendo 46.248 soggetti con COVID-19 confermato, ha riscontrato che le comorbidità più frequenti erano ipertensione (17%), diabete (8%) e patologie cardiovascolari (5%). È importante sottolineare che la prevalenza di queste condizioni era maggiore in pazienti critici ricoverati in unità di terapia intensiva e in quelli deceduti (3).
Nonostante la manifestazione principale di COVID-19 sia la polmonite virale (4), esso può anche provocare lesioni miocardiche, aritmie, tromboembolie e sindromi coronariche acute (5).
L’interazione tra COVID-19 e malattie cardiovascolari evidenzia la presenza di fattori e condizioni di rischio cardiovascolare comuni che aumentano la probabilità di sviluppare la patologia in forma grave. Per ridurre la mortalità, è fondamentale valutare questi fattori e individuare i pazienti più critici.
I fattori di rischio più importanti sono i seguenti:
- Età avanzata: l’infezione da SARS-COV-2 è meno frequente in soggetti con età inferiore ai 14 anni ed è spesso asintomatica (6). L’invecchiamento infatti ritarda l’attivazione della risposta immunitaria acquisita, diventando un fattore di rischio per la patologia
- Genere: Gli uomini sono più sensibili al SARS-CoV-2 (7), quindi il sesso maschile è uno dei fattori di rischio per COVID-19
- Patologie cardiovascolari: pazienti con malattie cardiovascolari sono più sensibili al virus, probabilmente a causa dell’espressione dell’ACE-2 nei fibroblasti vascolari e miociti (8)
- Ipertensione: i ricercatori hanno evidenziato un incremento della mortalità legato all’ipertensione, la quale potrebbe influenzare la funzione polmonare e compromettere l’apporto di ossigeno (9).
- Diabete: La microangiopatia polmonare, provocata dallo stress ossidativo nell’iperglicemia e l’infiammazione polmonare, predispongono i pazienti al COVID-19, rendendo i pazienti diabetici meno responsivi al trattamento e con un rischio di morte più elevato (10)
In tutte le revisioni e metanalisi pubblicate negli ultimi mesi, lo stato nutrizionale non è stato incluso tra i fattori di rischio, pur essendo decisivo nell’evoluzione di pazienti con malattie infettive.
Il denominatore comune che si individua nella maggior parte delle linee guida nutrizionali e dietetiche per combattere le infezioni virali, incluso il COVID-19, risiede nel legame tra dieta e immunità. In effetti, le prove esistenti evidenziano che la dieta ha un profondo effetto sul sistema immunitario e sulla predisposizione alle malattie. Infatti, è stato dimostrato che specifici nutrienti hanno la capacità di influenzare il sistema immunitario attraverso l’attivazione cellulare, la modifica nella produzione di molecole di segnalazione e l’espressione genica (11) e questa è la ragione per la quale è necessario evitare carenze dei nutrienti che svolgono queste funzioni.
L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha evidenziato come il mantenimento in salute del sistema immunitario dipenda strettamente dalle vitamine D, C, A (incluso il β-carotene) e da quelle del gruppo B (in particolare B6, B12 oltre che dal folato ).
Nello scenario COVID-19, i pazienti presentano una risposta infiammatoria amplificata e critica nota come “tempesta di citochine” che può essere suscettibile al trattamento attraverso sostanze nutritive che hanno come target lo stress ossidativo e l’infiammazione.
Tra le prime troviamo antiossidanti classici come la vitamina C (12), la vitamina E ed alcuni oligoelementi che supportano l’attività antiossidante enzimatica (13), mentre alla seconda categoria appartengono gli acidi grassi polinsaturi a catena lunga (PUFA). Essendo noti precursori metabolici di mediatori lipidici pro-risoluzione, gli acidi grassi polinsaturi omega-3 a catena lunga potrebbero aiutare a migliorare la risoluzione dell’equilibrio infiammatorio, limitando il livello e la durata del periodo infiammatorio critico (14).
Gli acidi grassi omega-3 includono l’acido α-linolenico (ALA) derivato da fonti vegetali, l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA) ottenibili dal pesce. Gli acidi grassi omega-6 sono i precursori di diversi mediatori proinfiammatori tra cui gli eicosanoidi come le prostaglandine e i leucotrieni (15). Uno squilibrio di omega-6 e omega-3 ha importanti implicazioni per l’omeostasi del sistema immunitario e può degenerare nell’insorgenza di condizioni autoimmuni e metaboliche(16). Dal momento che queste due categorie di acidi grassi competono per gli stessi enzimi, elevate concentrazioni di acidi grassi omega-6 possono ostacolare il metabolismo degli acidi grassi omega-3. Pertanto, è raccomandabile mantenere un sano equilibrio tra omega-6 e omega-3, con un rapporto di circa 4:1 (17).
Quelli fin qui elencati sono alcuni dei meccanismi che legano le risposte infiammatorie e immunitarie allo stato nutrizionale, meccanismi ben noti ma in realtà ancora troppo poco considerati nella pratica clinica. L’atteggiamento a volte inerziale rispetta a incisive correzioni dello stile di vita può comportare conseguenze gravi. Infatti….
…. è di questi giorni un articolo sul Sole 24 Ore che ha innescato una campagna stampa nazionale che evidenzia -con toni giustamente allarmanti- il dilagare dell’infarto miocardico e di altre malattie cardiovascolari da Covid, sia in acuto sia nel c.d. “long covid”…..
Paradossalmente in parallelo si accumulano evidenze di quanto attraversi la dieta si possano contrastare questi fenomeni. Una recente metanalisi ha mostrato una correlazione significativamente inversa tra i livelli ematici di acido alfalinolenico e il rischio di mortalità totale: la sua assunzione con i cibi si associa ad un rischio di mortalità inferiore dell’8% e del 10% rispettivamente per patologie cardiovascolari e sindromi coronariche acute (18). Questo dato, di grande interesse, conferma alcune ipotesi sostenute da più ricercatori in passato e conferma che l’organismo umano ha bisogno di questo acido grasso, non a caso classificato tra gli Acidi grassi “essenziali”. Ma la nutrizione ha un ruolo cruciale anche attraverso altri componenti: a titolo di esempio citiamo uno studio che dimostra come i pazienti COVID-19 con livelli di micronutrienti inadeguati affrontino periodi di ospedalizzazione più lunghi rispetto a quelli con dieta correttamente bilanciata (19).
La dieta corretta (come la nostra dieta mediterranea, quella “vera” !) ha dimostrato la sua dimostrata capacità di prevenire le malattie cardiovascolari, per il potenziale antinfiammatorio e immunomodulante e perché riequilibria l’apporto di sostanze pro-infiammatorie e ipolipidemizzanti, aumentandole a svantaggio di quelle di effetto opposto. La dieta equilibrata, ricca di sostanze protettive (20) deve essere anche bilanciata per l’apporto di alfa-linolenico e dei suoi derivati omega tre rispetto agli altri acidi grassi, per garantire gli effetti protettivi attesi.
Questi risultati sono facili da raggiungere, non hanno controindicazioni in nessuna classe di età o condizione parafisiologica o patologica e pertanto dovrebbero essere non solo proposti, ma anche adottati, come misure generali di sanità pubblica, seguendo le linee di indirizzo internazionali e ponendo particolare attenzione, ove si voglia integrare l’alimentazione con integratori e alimenti speciali.
Facile a dirsi, facile anche a farsi, ma, di fatto, principio non attualizzato. E intanto le malattie infettive dilagano approfittando anche delle carenze nutrizionali in tutto il mondo, da quelle totali e gravissime di alcune paesi in via di sviluppo a quelle più subdole ma altrettanto gravi della dieta “moderna”
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