Fattori neurobiologici, psicogenetici e psicosociali dell’aggressività e della violenza (parte prima)

Fattori neurobiologici, psicogenetici e psicosociali dell’aggressività e della violenza

Parte prima

 

L’aggressività e la violenza secondo la filosofia, i naturalisti, la psichiatria, la psicanalisi, il comportamentismo e l’etologia

Per aggressività si intende l’inclinazione di un organismo vivente a sviluppare comportamenti offensivi nei confronti di altri organismi viventi, che possono raggiungere un’intensità tale da provocarne la morte. Si tratta di una caratteristica del mondo animale, di cui l’uomo fa indubbiamente parte, che spinge l’aggressore verso comportamenti orientati ad appropriarsi di un altro organismo vivente ai fini della propria nutrizione o ad affermare il potere di dominio e di difesa del proprio territorio o ad avere la supremazia all’epoca degli amori: l’aggressività può essere quindi predatoria, da difesa e da competizione sessuale.

Da Conrad Lorenz l’’aggressività è definita come la pulsione combattiva diretta contro i membri della stessa specie, tanto negli animali quanto nell’uomo.

Secondo il World report on violence and health (Geneve 2002), la violenza umana è sinonimo di prepotenza, angheria, brutalità, prevaricazione ed esprime l’uso intenzionale di forza fisica o di potere, minaccioso o reale, contro una persona o un gruppo di persone o una comunità, che comporta o ha una alta probabilità di comportare lesioni fisiche, morte, danno psicologico, e/o deprivazione.

La violenza può essere fisica o verbale, in quanto si può attuare con atti di aggressione fisica rivolti a provocare lesioni più o meno gravi o con modalità verbali e/ o gestuali, volte ad offendere, umiliare tratti caratteristici della personalità altrui, come il sentimento di libertà o il sentimento di autostima e di dignità.

Negli animali predatori, la violenza è regolata sia dall’apparato della vita di relazione, costituito da organi con cui l’animale si mette in contatto con l’ambiente esterno (organi sensitivo-sensoriali e del sistema nervoso centrale) sia dall’apparato osteo-artro-muscolare, preposto ai movimenti del corpo nello spazio e dei suoi segmenti tra di loro.

Nell’uomo, il cervello, l’organo preposto all’interpretazione degli stimoli e all’elaborazione della relativa risposta, essendo particolarmente sviluppato, risulta provvisto della proprietà di contenere l’aggressività ovvero di poterla tradurre in comportamenti violenti.

Prima ancora che i cultori della scienza della natura e dei fenomeni sociali studiassero scientificamente l’aggressività e la violenza, Hobbes e Rousseau furono i più autorevoli filosofi che hanno teorizzato il comportamento originario dell’uomo.

Secondo la teoria di Thomas Hobbes (1588-1679), esposta nel “Leviatano” (1651), il comportamento dell’uomo allo stato di natura è dominato dall’aggressività e dalla violenza.

Jean Jaques Rousseau (1712-1778), nel suo “Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini” (1754), ipotizzava invece che gli uomini primordiali fossero dotati del libero arbitrio e della capacità di perfezionarsi, e manifestassero un comportamento caratterizzato dall’’impulso di autoconservazione e da una disposizione naturale alla compassione e alla pietà verso.

Con la nascita della scienza moderna, gli studiosi del comportamento umano, prendendo le distanze dalle filosofie e dalle ideologie precedenti, hanno superato il pregiudizio che l’uomo sia una creatura a sé stante, piuttosto che una delle specie del mondo animale, si sono impegnati a pervenire alla comprensione dei suoi meccanismi, privilegiando il metodo della sua osservazione.

Charles Darwin (1809-1892), fondatore dell’evoluzionismo moderno, ha attribuito all’aggressività il valore di una caratteristica innata fondamentale degli organismi viventi nella lotta per la sopravvivenza, per cui le specie animali, compresa quella umana, che si sono affermate nel corso della storia, per una sorta di selezione naturale, siano quelle dotate di più forte aggressività.

Successivamente, etologi, psichiatri, psicologi di vario orientamento teorico, sociologi, antropologi, criminologi e neuroscienziati, hanno svolto approfondite ricerche, volte a differenziare scientificamente l’aggressività umana da quella dei predatori animali.

Gli studiosi del comportamento, mentre hanno considerato l’uomo un predatore capace di controllare gli impulsi violenti, indotti dalla propria aggressività, in misura tale che, non sempre, essa debba sfociare nella violenza, hanno rilevato che gli altri predatori, invece, compirebbero gli atti aggressivi e violenti ineluttabilmente, secondo schemi fissi della condotta istintiva, geneticamente preordinati, anche se sollecitati da uno stimolo segnale. Non per questo però gli esseri umani sono considerati meno violenti degli altri animali.

Nel suo trattato “Principles of psycology” pubblicato nel 1890, William James scrisse che “l’uomo è la più crudele e feroce delle belve”, giudizio tutt’altro che sorprendente, che neppure le ricerche sul comportamento umano degli ultimi 125 anni hanno potuto smentire. Peraltro, tra gli addetti ai lavori, esistono notevoli disparità nell’interpretazione dell’origine della crudeltà e della ferocia umana. Secondo alcuni, ferocia e crudeltà dell’uomo esprimono una sua caratteristica innata, che si basa sul suo patrimonio genetico: l’aggressività. Per altri, invece, i comportamenti umani violenti, sarebbero il risultato dell’apprendimento esperito nel gruppo di appartenenza. Altri, infine, all’insegna del sincretismo, sono convinti che i comportamenti violenti dell’uomo, abbiamo una base genetica e siano influenzati nella loro espressione dalla cultura del gruppo di appartenenza e dall’esperienza del mondo circostante.

Freud, nella teorizzazione dell’assetto dell’apparato mentale, riconobbe l’importanza dell’aggressività, come risposta alla frustrazione, almeno fin dal 1900, quando pubblicò “L’interpretazione dei sogni”. Incentrò però il suo interesse sull’aggressività come pulsione innata dell’essere umano soltanto nell’opera “Al di là del principio del piacere”, pubblicata nel 1920. Le riflessioni contenute in quell’opera segnarono il passaggio del pensiero di Freud dalla concezione dell’apparato mentale incentrata sulle pulsioni sessuali alla fase del dualismo delle pulsioni.

Più tardi, Melanie Klein (1882-1960), seguendo la linea di pensiero di Freud sul dualismo delle pulsioni, ha teorizzato che l’Io è chiamato ad affrontare la pulsione di morte fin dalla nascita e ha descritto dettagliatamente i meccanismi con cui riesce a risolvere questo conflitto di fondo dell’essere umano

Per John Watson (1878-1958), il comportamento, piuttosto che programmato dal corredo genetico, è dipendente dall’esperienza del mondo circostante e dall’apprendimento. Gli psicologi sperimentali seguaci di questa concezione, nelle loro ricerche, hanno deliberatamente ignorato hhi fattori innati del comportamento, compreso quello basato sulla pulsione aggressiva, per concentrarsi unicamente sullo studio dell’apprendimento.

Nel periodo 1920-1950, con gli studi sui comportamenti innati condotti da Conrad Lorenz e Nicolaas Tinbergen, nacque l’etologia, il cui compito primario fu la descrizione del comportamento animale e la sua interpretazione dal punto di vista funzionale, causale, ontogenetico e filogenetico. Grazie alla sua impostazione metodologica, l’etologia divenne il luogo d’incontro di discipline orientate allo studio della natura, quali fisiologia, ecologia e zoologia, da un lato, e scienze sociali e discipline psicologiche, dall’altro. Un esempio classico di ricerca etologica sull’aggressività è quello sul comportamento sessuale e aggressivo del pesce spinarello maschio nella stagione dell’accoppiamento. In questo caso, il suo comportamento sessuale è caratterizzato dall’ostilità nei confronti dei maschi e da questi nei suoi confronti, in quanto provocata da uno stimolo segnale costituito dalla comparsa di una colorazione rosso brillante dell’addome. Il carattere innato del comportamento dello spinarello nella stagione dell’accoppiamento è comprovato dal fatto che non si modifica se gli animali sono stati allevati in completo isolamento.

Le recenti ricerche di Jane Goodal e John Mitani sul comportamento di violenza estrema manifestato da gruppi di scimpanzé dell’Uganda e della Tanzania nei confronti di altri gruppi della stessa specie, sembrerebbero avvalorare l’ipotesi secondo cui la aggressività e la violenza dell’uomo nei confronti dei propri simili abbia la sua base in una pulsione istintuale. E’ noto infatti che scimpanzé e uomini sono molto vicini filogeneticamente e geneticamente, condividendo un progenitore comune e il 98% del patrimonio genetico.

 

Dalla psichiatria nosografica alla psicogenesi dei disturbi mentali

La psichiatria, nata nella seconda metà del Seicento come branca della medicina clinica incentrata sull’osservazione delle persone malate di mente, si dedicò nella sua prima fase alla nosografia attraverso due momenti caratteristici, comuni anche ad altre discipline scientifiche: uno osservazionale e descrittivo dei sintomi e dei segni con cui i disturbi mentali si manifestano e l’altro classificatorio di tali sintomi e segni clinici in quadri morbosi caratteristici denominati sindromi.

Col metodo anatomo-clinico che correlava le sindromi psichiatriche alle lesioni cerebrali, rilevate all’esame autoptico, la psichiatria si avviò verso la biologia della mente, una ricerca che darà i suoi frutti solo recentemente, quando lo studio delle correlazioni tra disturbi mentali e alterazioni neurobiologiche cerebrali disporrà delle tecnologie messe a punto dalle neuroscienze.

Il limite della psichiatria nosografica ottocentesca, che raggiunse il culmine con l’opera di Kraepelin (1856-1926), fu quello di ignorare o sottovalutare l’importanza dei fattori psicosociali che influenzano lo sviluppo cerebrale, nonché lo sviluppo della personalità e i suoi disturbi.

Nella ricerca inerente ai disturbi mentali, compreso il comportamento violento patologico, la psichiatria occidentale ebbe una svolta fondamentale quando, all’inizio del Novecento, fu attraversata da alcuni concetti della psicoanalisi. Il maggiore esponente del nuovo corso fu Eugen Bleuler (1857-1939), collaboratore di Freud, al quale nel 1910 diede il proprio contributo per l’istituzione della Società psicoanalitica internazionale. Fondatore di un’autorevole scuola che ebbe tra i suoi discepoli Carl Gustav Jung, Karl Abraham, Ludwig Binwanger ed Herman Rorshach ;Nel suo celebre “Trattato di psichiatria” del 1916, Bleuler enunciò un concetto che ebbe la valenza di un manifesto scientifico. Sottolineò infatti che, “La personalità si sviluppa sulla base delle disposizioni evolutive e reattive ereditarie, in stretta connessione tanto con lo sviluppo somatico che con l’esperienza del mondo circostante”. In altri termini per Bleuler molti aspetti del comportamento umano normale e patologico sono il risultato, oltre che delle disposizioni ereditarie, anche dell’esperienza del mondo circostante e dell’apprendimento.

Grazie a questa impostazione, nell’ultimo secolo, la psichiatria si è avvalsa non solo delle scoperte della neurofisiologia, della neurochimica, della genetica e della neurobiologia molecolare, ma anche degli studi della sociologia, dell’antropologia e delle psicologie.

Emile Durkeim, nella sua opera sulla sociologia del suicidio pubblicata nel 1897, pur ammettendo che alla base del comportamento suicidario vi possa essere una predisposizione psicologica, ritenne che il fattore determinante di questo comportamento è di tipo sociale, e lo identificò nell’anomia, intendendo con tale termine una condizione complessa caratterizzata dall’allentamento dei rapporti di solidarietà sociale connesso ad un indebolimento delle norme morali e sociali che si instaura soprattutto nei periodi di rottura degli equilibri della società e di sconvolgimento dei suoi valori.

Ben pochi sono stati però, a tutt’oggi gli esempi di collaborazione tra sociologia e psichiatria, neppure dopo gli studi del sociologo canadese E. Goffman sulle istituzioni totali, largamente dedicati ai meccanismi di esclusione e ella violenza di cui sono vittima i malati di mente.

In Italia, nella seconda metà del Novecento gli studi del sociologo canadese sono state utilizzate per radicalizzare le teorie sulla sociogenesi delle malattia mentali, al punto da indurle ad assumere un connotato antipsichiatrico. Si è trattato di una pratica fortemente ideologizzata che, pur sostenendo l’irrilevanza dei fattori neurobiologici e psicologici nel determinismo dei disturbi mentali, ha avuto nei servizi socio-sanitari pubblici italiani un’affermazione talmente ampia da diventare egemone.

Grazie all’opera di Bleuler la psichiatria ha orientato la sua ricerca anche, sulla psicogenesi dei disturbi mentali. Parallelamente all’affermazione delle teorie psicogenetiche dei disturbi mentali, la psicopatologia che originariamente apparteneva esclusivamente alla psichiatria, entrò anche nel campo della pratica clinica e della ricerca della psicoanalisi e delle altre psicologie. In materia di comportamenti violenti, la correlazione tra essi ed alcune emozioni, come la collera, la paura e la gelosia è stata riconosciuta è stata studiata da quasi tutte le psicologie.

In materia di studi di psicogenesi dei comportamenti violenti, la psicoanalisi si è orientata prevalentemente verso gli studi delle correlazione tra essi e alcuni affetti inconsci. L’inizio di questi studi si fa risalire all’opera di Freud “alcuni caratteri tratti dal lavoro psicoanalitico”, pubblicata nel 1916, laddove viene ipotizzato che alcuni comportamenti trasgressivi o francamente criminali tra cui la violenza contro gli altri si basano su un senso di colpa inconscio correlato al complesso edipico.

Tra gli altri affetti inconsci scoperti dalla ricerca psicoanalitica come fattori che promuovono atteggiamenti aggressivi, di ostilità e di odio di un individuo verso gli altri, tali da indurre non di rado a comportamenti violenti, sono stati individuati, l’invidia del bambino nei confronti dell’oggetto primario, il dolore per la perdita dell’oggetto primario e dei suoi sostituti nonché l’angoscia di separazione dall’oggetto.

Tra le ricerche dei seguaci di Freud, di grande interesse per la comprensione di molti disturbi mentali e dei comportamenti violenti spiccano quelle condotte da Melanie Klein (1882-1960) e dalla sua scuola (Hanna Segal ,1918-2011), secondo cui, fin dalla sua nascita il bambino, benché disponga di un Io ancora fragile, deve affrontare la pulsione di morte e quindi l’oggetto persecutorio e la portata distruttiva dell’invidia.

In tale ambito, sono interessanti le ricerche cliniche condotte da Harold Searles sulla forma di ostilità con le caratteristiche della vendicatività. Secondo questo Autore, i comportamenti violenti ad essa correlati sono secondari a due affetti inconsci, l’angoscia di separazione dall’oggetto primario e il dolore per la sua perdita; in alcuni casi, prevale il primo e in altri il secondo.

Tutt’altro che trascurabile è il contributo dato agli studi sulla psicogenesi del comportamento violento dell’uomo dalle diverse scuole comportamentiste moderne ispirate da Watson, accomunate dalla condivisione del principio che i sintomi dei disturbi mentali sono schemi di comportamento appresi che non causano adattamento, cioè la capacità di mantenersi in uno stato vantaggioso per il proprio benessere e la propria sopravvivenza in risposta ai cambiamenti. Secondo tali scuole i sintomi dei disturbi mentali, compresi i comportamenti violenti, nella misura in cui vengono appresi possono anche essere disimparati.

 

Le ricerche della psicofarmacologia moderna e la loro ricaduta sullo sviluppo della psichiatria

Le ricerche di neurobiologia, inizialmente orientate a studiare le correlazioni tra disturbi mentali e ipotetiche lesioni cerebrali, hanno potuto compiere un salto di qualità solo quando sono state in grado di studiare i meccanismi molecolari del funzionamento normale e delle disfunzioni del cervello che regolano l’apparato mentale, superando così definitivamente il poco fecondo metodo anatomo-clinico.

Prima ancora dell’avvento delle neuroscienze, a questa svolta hanno contribuito in misura rilevante le ricerche della psicofarmacologia moderna

Il percorso di questa branca della medicina, iniziato negli anni cinquanta del Novecento, ha consentito di scoprire la funzione e l’equilibrio dei neurotrasmettitori e e il loro terapeutico: acetilcolina, dopamina, adrenalina, noradrenalina, serotonina, istamina, aminoacidi (Gaba, glicina, glutammato), neuropeptidi (oppioidi, ormoni neuroipofisari, tachichinine, secretine, insuline, somatostatine, gastrine

La scoperta dei neurotrasmettitori è una delle basi delle neuroscienze, termine introdotto nel 1972 dal neurochimico americano Francis Schmitt, col quale si intende l’insieme di studi condotti sul comportamento umano con un metodo di ricerca scientifica multidisciplinare, dove sono coinvolte, oggi, oltre alla neurologia e alla psichiatria, la fisiologia, la chimica, la biochimica, la fisica, la matematica le psicologie, la psicogeriatria, la sociologia, e la filosofia nella parte che riguarda l’epistemologia. L’estrema frontiera verso cui si sono indirizzati gli studi delle neuroscienze è, secondo E.Kandel “quella della comprensione delle basi biologiche della coscienza e dei processi mentali che ci consentono di agire, di percepire di apprendere o di ricordare”. Tali studi sono stati facilitati e approfonditi dallo sviluppo tecnologico delle apparecchiature di neuroimaging funzionali, quali la PET (tomografia ad emissione di positroni), la fMRI (risonanza magnetica funzionale), l’ l’EEG multicanale (elettroencefalografia multicanale); la SPECT (Tomografia computerizzata ad emissione di fotoni semplici), la Magnetoencefalografia (MEG) e la spettroscopia ad infrarossi (NIRSI).

Le ipotesi di lavoro delle neuroscienze nello studio delle correlazioni tra disturbi mentali e funzionamento neuronale e sinaptico sono sostanzialmente tre: la prima indica l’influenza dell’ambiente sullo sviluppo cerebrale e delle funzioni mentali; la seconda sottolinea che tutti i disturbi mentali, nevrotici o psicotici, sia di origine genetica che di origine sociale o mista, riflettono alterazioni del funzionamento neuronale o sinaptico; la terza ipotesi è che i trattamenti terapeutici, farmacologici, psicologici e psicosociali, danno benefici clinici stabili ,in quanto agiscono sulle funzioni cerebrali e comunque sulle sinapsi del Paziente.

Le neuroscienze, col superamento definitivo della ricerca delle correlazioni tra disturbi mentali e lesioni anatomiche del substrato cerebrale, ha aperto la strada ad una nuova biologia della mente e ha dato un contributo importante nel campo degli studi sull’aggressività e dei comportamenti violenti umani. Ha infatti consentito, in particolare, di evidenziare il ruolo svolto nella loro genesi dal sistema limbico (lobo limbico, ippocampo, amigdala, nuclei talamici anteriori), dai lobi prefrontali, dall’equilibrio dei sistema noradrenergico dopaminergico e serotoninergico nonché da quello degli ormoni sessuali maschili e femminili

La nuova biologia della mente ha aperto una prospettiva di collaborazione dialettica tra la scienza dei disturbi mentali e le scienze sociali, sviluppandosi secondo due ipotesi convergenti, enunciate da E. Kandel. La prima ipotesi è che le condizione sociali sfavorevoli possono determinare alterazioni del “funzionamento neuronale e sinaptico” a livello cerebrale e quindi disturbi mentali. La seconda ipotesi, complementare alla prima, è che le condizioni psicosociali favorevoli possono produrre un adeguato funzionamento neuronale e sinaptico e quindi salute mentale anche nell’individuo biologicamente predisposto allo sviluppo di disturbi psichici sia per fattori psicostressanti che per fattori biologici genetici che per fattori biologici acquisiti.

Proprio in considerazione di ciò, già nel 1998 E. Kandel auspicava, che la psichiatria si relazionasse alle neuroscienze, considerandole non solo come strumento di ricerca ma anche come fondamento per la formazione e la pratica clinica degli specialisti della salute mentale orientata alla diagnosi e alla rimozione dei fattori psicosociali che favoriscono l’insorgenza di disturbi mentali caratterizzati da comportamenti violenti.

 

I comportamenti violenti patologici e i più recenti orientamenti diagnostici della psichiatria

I comportamenti violenti manifestati da persone affette da disturbi psichici, di cui si occupa la psichiatria, possono essere denominati patologici, per essere differenziati sul piano nosografico da quelli messi in atto, in modo premeditato, da soggetti che operano in proprio o al servizio di organizzazioni criminali all’interno di un progetto finalizzato a trarre benefici realistici oppure al servizio di istituzioni statuali, come l’esercito e altri corpi armati.

Va da sé che, in base alla scala dei valori di uno Stato di diritto, i comportamenti violenti volti a violare le sue leggi sono giudicati illeciti, mentre quelli messi in atto dai corpi armati dello Stato sono leciti e legittimi in quanto finalizzati alla difesa dei diritti dei cittadini e del territorio su cui lo stato esercita la propria sovranità. Gli uni e gli altri non sono comportamenti di cui si occupa la psichiatria, anche se, talvolta, essi possono essere difficilmente differenziati da quelli patologici.

I comportamenti violenti patologici si possono distinguere:

a)- a seconda dell’età d’insorgenza: dell’età dello sviluppo e dell’età adulta;

b)- a seconda dell’oggetto su cui vengono indirizzati: le persone (sé stessi o gli altri), la natura, gli animali, le proprietà altrui;

c)- in base all’identità delle persone verso cui sono indirizzati: prevalentemente o esclusivamente verso il partner sessuale o altri membri della famiglia, i bambini, gli anziani, le persone dello stesso sesso, le persone dell’altro sesso, etc);

d)- in base ai disturbi mentali a cui sono correlati: da difetto di controllo degli impulsi, alterazioni percettive, alterazioni deliranti del pensiero, da alterazioni del tono dell’uomore;

e)- a seconda del gruppo nosografico dei disturbi in cui sono inclusi: dello spettro dell’autismo, dello spettro della schizofrenia, dei  disturbi dell’umore; dei disturbi della sfera sessuale, dei disturbi da sostanza d’abuso, etc

f)- in base al fattore etiologico da cui sono determinati, encefalopatie, anomalie cromosomiche, epilessia, fattori socioambientali, esperienze psicostressanti acute o croniche;

g)- a seconda dell’ambiente in cui si manifestano.

Per la stragrande maggioranza degli psichiatri occidentali i criteri diagnostici di riferimento sono quelli proposti dal “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM)” e dal Manuale diagnostico psicodinamico (PDM)

Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), introdotto nel 1952 dall’ Associazione americana di psichiatria (APA), ha sostituito innanzitutto il concetto tradizionale di malattia mentale, con quello di disturbo mentale. Con questo termine si indica una condizione, multifattoriale, di indebolimento del benessere di un individuo, che si manifesta prevalentemente con sintomi psicopatologici tali da comportare una menomazione significativa, non inferiore ad una settimana, del funzionamento nell’area personale, scolastico-lavorativa e/o e sociale. Il manuale dell’APA ha introdotto altresì, in alternativa alla nosografia psichiatrica tradizionale, la tecnica di valutazione multiassiale del soggetto esaminato. Con questa impostazione, il manuale non si limita a definire esclusivamente la diagnosi del disturbo clinico presentato dal Paziente ma valutaalmeno quattro assi, descritti in modo chiaro: I) i disturbi clinici; II) i disturbi di personalità; III) le condizioni mediche generali; IV) i problemi psicosociali ed ambientali, per un tempo, una minorazione significativa. In tale modo il manuale può essere utilizzato sia nella pratica clinica inerente ai disturbi mentali, compresi quelli che includono comportamenti violenti, sia nella ricerca relativa alla loro etiopatogenesi.

L’ultima revisione del manuale dell’APA (DSM 5), pubblicata nel 2013 propone il riconoscimento di più di 370 disturbi mentali, descrivendoli in base alla prevalenza di determinati sintomi e segni, per lo più osservabili nel comportamento dell’individuo e correlandoli ad una molteplicità di condizioni sanitarie generali, esistenziali (età, sesso, lavoro), socioculturali. Il manuale consente così agli psichiatri e psicologi clinici di avere un comune modello diagnostico di riferimento per la verifica delle caratteristiche cliniche proposte dal team e per lo scambio di informazioni anche per quanto concerne il risultati dei trattamenti terapeutici effettuati a favore dei Pazienti affetti da disturbi con determinate caratteristiche cliniche. Per quanto riguarda la ricerca, in inerente ai comportamenti violenti, il manuale dell’APA consente di studiare la loro correlazione con gli altri sintomi del disturbo mentale del cui quadro clinico fanno parte e con i vari fattori, culturali, biologici e psicosociali, che influenzano lo sviluppo della personalità e la salute mentale.

Avendo come obbiettivo la generalizzazione, perseguita attraverso una logica categoriale, che inserisce gli individui in una determinata classe diagnostica, Il DSM, sembra pensato prevalentemente per la ricerca.

Il Manuale diagnostico psicodinamico (PDM), è comparso per la prima volta nel 2006, per iniziativa delle Società psicoanalitica americana e degli psicologi e psichiatri americani di orientamento psicoanalitico, in alternativa e forse anche a completamento del DSM rispetto al quale propone un cambio di prospettiva che consente una visione più ampia della singolarità del paziente, con un’attenzione non solo alla sua psicopatologia, ma anche alle sue risorse.

Nel PDM, la salute mentale è intesa come una condizione di benessere percepito, valutata in base al contesto di appartenenza dell’individuo, concepita non solo come assenza di sintomi psicopatologici, ma anche come presenza di tutta la gamma di capacità cognitive, emotive e comportamentali della persona, nella loro adeguatezza.

A differenza del DSM che, nella sua diagnostica cerca di mantenersi equidistante da tutte le psicologie, il manuale diagnostico psicodinamico ha come riferimento privilegiato la psicoanalisi relazionale, un indirizzo psicoanalitico nato negli Stati Uniti che enfatizza il ruolo delle relazioni dell’individuo con gli altri, siano esse reali o immaginarie, sia nei disturbi mentali che in psicoterapia.

La diagnosi fatta con i criteri proposti dal PDM, oltre ad essere multiassiale è anche multidimensionale, articolandosi sulla base di tre assi, che mettono in evidenza tre dimensioni: Asse P, per la valutazione dei patterns e dei disturbi di personalità; l’asse M, per la comprensione del profilo del funzionamento mentale del soggetto; asse S, per la valutazione dei pattern sintomatici a partire dall’esperienza soggettiva del paziente.

Essendo centrato prevalentemente sulle caratteristiche del funzionamento mentale del Soggetto ed orientato soprattutto alla comprensione dell’individuo nella sua specifica globalità, il PDM sembra pensato più per il trattamento terapeutico del singolo Paziente che per la ricerca.

 

Giuseppe Luciano

Vice Direttore Scientifico ACSA Magazine

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