Genetica e medicina delle 4P: questo matrimonio s’ha da fare?
Antonio Vittorino Gaddi (^), Pasquale Ortasi (°), Maria Giorgia Barbieri(°), Tempesta Sergio (+), Giovanni Ussia (*), Marco Manca ($), Tommaso Diego Voci (§).
(^) Sezione Emilia Romagna della Società Italiana di Salute Digitale e Telemedicina e Laboratorio di Scienze e Tecnologie della Salute della GTechnology Foundation, Bologna e Modena.
(°) Struttura multifunzionale LugoMedica, Lugo
(+) TPE (Tecnobios Prenatale Eurogenlab) e Laboratorio Caravelli, Bologna
(*) Consultant Surgeon, London, UK
($) Presidente Fondazione ScimPulse, Maastricht, NL
(§) Fondatore e Rappresentante Legale ACSA Onlus, Torino/Roma
1.0 Premessa
Va oggi molto di moda la medicina delle 4P (Medicina Preventiva, Predittiva, Personalizzata e Partecipativa) se non delle 5P (4P + medicina psico-cognitiva). Se ne trovano tracce tra i documenti del Ministero e delle varie Autorità e Istituzioni sanitarie; in alcune Regioni sono previste dai piani sanitari regionali. Ma al di là di scenari avveniristici più o meno auspicabili, cosa c’è di utile per il cittadino o per il malato – oggi- dietro queste definizioni?
Tentiamo qui una risposta razionale basata sulla letteratura recente e filtrata dal ragionamento clinico, senza pretese di esaustività, ma certi di dare un contributo dialettico e –assieme- una scossa all’ingessato sistema della diagnostica territoriale che caratterizza l’Italia e alcune zone d’Europa, osservando che in molte nazioni, e in particolare in Nord America, la letteratura si schiera sempre più a favore del ricorso alla medicina predittiva genetica (1-6).
Negli ultimi anni si è registrata l’esplosione dei test genetici offerti a tutti, in alcuni casi addirittura per l’impiego “direct to consumer” come purtroppo statuito da alcune istituzioni, tra cui la stessa Food and Drug Administration. La pressione del mercato (vendita online di test genetici, se mai effettuabili su saliva, e senza necessità di prelievo) sta muovendo interessi miliardari e, assieme, intere sezioni dell’opinione pubblica. Il caso di Angelina Jolie[1], pubblicato sul New York Times nel 2013, è oggi riportato anche su Wikipedia … e la gente parla comunemente del “gene Julie” per fare riferimento al Breast Related Cancer Antigen (BRCA)(7).
Mentre questi fenomeni mediatici “a furor di popolo” tirano la volata all’avvento di nuove forme di medicina, gli scienziati e i clinici parlano di super-convergenza di fattori innovativi che “necessariamente determineranno” l’inizio di una nuova era della medicina stessa[2],[3]. In parallelo la System Medicine e la Precision Medicine cercano ancora regole proprie e nuovi modelli applicativi (8-12) … e mentre tutto questo accade … i medici trovano difficoltà nel tradurre i dati della ricerca in benefici tangibili per i pazienti, a loro volta sensibilizzati dai media e spesso in attesa di soluzioni miracolose, o fantasiose, quando non alternative.
Questo stato di cose si riverbera negativamente anche nella interazione tra clinici, responsabili della salute e autorità sanitarie, in particolare in merito alla utilizzazione delle linee guida, oggi irrinunciabili ai sensi di Legge (L. 28-2-2017 “Gelli”), rispetto alle mutevoli attese di cura da parte dei malati e alle incredibili opportunità di cura che sia il laboratorio moderno sia i mezzi informatici ci offrono.
Proponiamo nel testo che segue la nostra visione e proposta di soluzione della questione.
2.0 Questioni di metodo
La genetica di laboratorio mira a identificare polimorfismi o mutazioni utilizzabili come elementi diagnostici o prognostici, mentre la genomica spazia sull’analisi di tutto il genoma, e implica lo studio delle complesse interazioni tra geni o della possibilità di modularle, come nel caso della farmacogenomica (fino alla creazione dei farmaci individuali). La genomica rientra, come tutte le omiche tra le “scienze nascenti della complessità”, almeno se vogliamo dar credito alle intenzioni degli inventori del suffisso oma, ora impiegato in quasi tutti i settori delle scienze biomediche.
La genomica, assieme all’epigenomica, transcrittomica, metabolomica, ambientomica (sic) e tante altre, sono l’asse portante di numerosissime ricerche e studi, spesso orientati alla soluzione dei problemi di complessità dell’essere umano; siamo però ancora in attesa delle necessarie rivoluzioni scientifiche per decifrare le interazioni tra codice genetico, codici ambientali e codici biologici, ancora tutti da scoprire.
Rimandiamo alla letteratura[4] per un approfondimento, limitandoci a sostenere che la quantità e qualità delle informazioni disponibili è ancora modesta, insufficiente per tentare di comprendere a fondo molti fenomeni. Le conoscenze oggi disponibili bastano appena per darci ragione e spiegazione di alcuni aspetti diagnostici e prognostici relativamente semplici.
Nel campo della genetica[5] vengono proposti alla attenzione dei Medici scenari e modelli differenti, alcuni dei quali immediatamente adottabili per la pratica clinica:
a) modelli applicativi derivati dai wide association studies (WAS) e dai genome wide association studies (GWAS) sono utilizzati, spesso con successo clinico, per trovare le cause genetiche di specifiche malattie, usualmente rare e mono- (pauci-) geniche;
b) viceversa nel caso della genetica di malattie complesse e comuni: i modelli proposti non sempre portano a risultati utili e vengono identificati molti geni (decine o centinaia) con associazioni deboli o debolissime con la malattia in studio oppure che ne condizionano l’epoca di esordio o le caratteristiche nei portatori rispetto ai non portatori. Traslare sulla clinica questi modelli è impresa ardua e non sempre consigliabile.
In presenza di tali risultati (b), molti autori hanno ripiegato sulla utilizzazione dei dati genetici, selezionati di solito in base all’odd ratio, per creare funzioni di rischio, applicabili come tali in popolazioni o cluster di individui, a emulazione delle funzioni di rischio tradizionali, che misurano però variabili fenotipiche e trovano conferme sperimentali attraverso studi prospettici di lunga durata.
Questo modo di utilizzare i dati genetici (polimorfismi usati come fattori di rischio) pur di un qualche impatto nella pratica clinica, è in contraddizione con l’idea di predittività individuale e in alcuni casi rischia di diventare un escamotage per bypassare le nostre attuali difficoltà (di metodo) rispetto ai problemi della complessità.
In letteratura questi aspetti sono oggetto di analisi e discussione (5, 6, 13-17); in alcuni casi viene messo in dubbio l’uso dei dataset derivanti dagli studi di associazione (GWAS), in particolare nell’ottica della system genetics e delle sue possibili applicazioni future; in parallelo, si cerca di utilizzare questi dataset per numerose finalità, ad esempio per il riposizionamento dei farmaci (ricercare nuove indicazioni o definirne la maggiore o minore efficacia) e/o per testare, se mai su coorti di pazienti preesistenti (ad es. quelle dello JUPITER, dell’ASCOTT, del CARE e del PROVE-IT), l’utilità diagnostica o prognostica di specifiche selezioni di polimorfismi.
La tabella che segue evidenzia alcune modalità, diverse l’una dall’altra, di utilizzazione dei dati del laboratorio di genetica; non pretende di definire o delimitare ambiti disciplinari isolati, anche perché le ricerche da cui derivano gli esempi sono fortemente interdisciplinari e i diversi metodi utilizzati di embricano tra loro.
L’idea è di fornire al Medico una visione semplificata di carattere operazionale, e quindi orientata a ciò che può/deve essere utilizzato nella pratica clinica (ultima colonna a destra), invitandolo però a considerare sia gli aspetti di natura disciplinare (specialistica) sia quelli relativi al metodo.
Se ad esempio un cluster di 5 geni viene utilizzato per la stima del rischio di infarto miocardico in base a un dato algoritmo (esempio nella seconda riga) non è detto che quegli stessi 5 geni possano o debbano avere un valore anche nel ragionamento fisiopatologico invocato nella riga successiva. Per contro se, ad esempio, eseguiamo una stima del rischio genetico con un pannello di 25 geni, che fornirà un risultato X, ad esempio di rischio cardiovascolare basso, e il paziente esaminato –tra i tanti polimorfismi- risulta portatore di una omozigosi per il Fattore V (G1691A, “Leiden”), potremmo utilizzare questa informazione nel ragionamento fisiopatologico e nelle scelte terapeutiche a prescindere dal risultato del rischio (terza riga della tabella). Starà agli esperti, o ai Colleghi che vorranno studiare a fondo i singoli argomenti, decidere come utilizzare il dato. L’essenziale è che il Medico abbia chiaro sia il “senso” dell’analita sia i limiti di carattere metodologico, prima di applicarli al contesto clinico.
Ed è proprio qui che si pone una delicatissima questione che coinvolge sia il metodo propriamente detto, sia la modalità di comunicazione delle informazioni tra laboratorio, medico e paziente.
Il metodo propriamente detto perché devono essere ben chiare -e quindi condivise- le basi scientifiche che consentono di asserire che quel certo analita indirizza o aiuta (o meno) una diagnosi o modifica una prognosi. E deve essere chiaro quali siano gli intervalli di confidenza entro cui la scelta è valida e se siamo autorizzati ad applicarla al singolo malato oppure se è applicabile solo a popolazioni (il che vale anche per le funzioni di rischio tradizionali, come la funzione Riskard 2005, la Framingham, Cuore e le altre)(18-25).
Ma anche la modalità di comunicazione, perché non è pensabile né prudente proporre, nel setting della Medicina Generale, cosi come in quello della Medicina Specialistica (extra) ospedaliera, che il singolo medico si improvvisi genetista medico e bio-informatico assieme e vada a ricercare tutti i possibili significati del singolo polimorfismo o delle loro associazioni. Aspetto questo ancor più complicato se si pensa al fatto che c’è di mezzo non solo il Laboratorio e il Medico, ma anche e soprattutto il Paziente, spesso con implicazioni sulla sua Famiglia.
Per queste ragioni, e per la complessità intrinseca della materia, anche eventuali documenti di indirizzo o linee guida difficilmente potranno predefinire i comportamenti e le scelte del Medico a fronte del singolo malato. Anzi l’idea di fondo della Medicina Predittiva individuale è proprio quella di trovare le peculiarità che differenziano il singolo da quelle misure di tendenza centrale o di maggior frequenza (medie e mode per intenderci) sui cui si basa la logica delle linee guida, come ben precisato da David Lawrence Sakett, padre indiscusso della Evidence Based Medicine[6], che sosteneva l’importanza di non applicare -né trasferire tout court al paziente- quanto desumibile da Linee Guida, concetto questo che ancora sfugge a molti, ma certamente non ai Clinici.
Questa posizione si va ben delineando in letteratura, con iniziali studi (26, 27) e riviste autorevoli che riportano inviti a utilizzare intelligentemente le linee guida proprio nel caso della medicina personalizzata, coinvolgendo al massimo i Medici con la necessaria prudenza (…..entail more active participation from a range of stakeholders, including physicians who will need to embrace equipoise ……… )(28).
3.0 Dunque che fare ?
La domanda è lecita. Infatti se in più settori della scienza il motto fondamentale è dubium sapientiae initium, nel caso della medicina va rimodulato come in dubium dubita … et indaga et cura, e l’obbligatorietà di questa ultima azione ci chiama e ci costringe all’azione anche quando mancano indicazioni ufficiali o Linee Guida. Il Legislatore infatti dovrebbe sapere che le “prove” scientifiche su cui costruire percorsi certi, in medicina, non solo non sono sempre applicabili al malato, ma sono anche modeste, quasi inesistenti nel settore diagnostico-prognostico (29).
Per fortuna i Medici hanno oggi a disposizione due microscopi potentissimi, applicabili al singolo malato: la diagnostica in alta risoluzione, oggi non invasiva o mini-invasiva, e il laboratorio avanzato di proteomica, di genetica e genomica. Il primo adatto alla diagnosi di malattie già iniziate, ma anche allo stadio iniziale (malattia dell’organo bersaglio o MOB, ma in futuro anche molto di più… malattia cellulare/molecolare). Il secondo che abbraccia a 360 gradi il paziente nella fase della prevenzione pre-primaria, primaria e secondaria, della predizione individuale e della diagnosi ultra-precoce, ecc… fino alla valutazione delle fasi più gravi di malattia.
Nella tabella seguente prospettiamo alcuni esempi di uso corretto del laboratorio di genetica nella routine clinica dei nostri pazienti (3, 30-46); nella tabella non sono riportate le condizioni rare o poco frequenti, per le quali necessariamente rimandiamo alla letteratura e ai siti ufficiali. La letteratura utilizzata per compilare la tabella non può rappresentare una analisi esaustiva delle singole problematiche citate.
Le malattie rare associate a geni ad alta espressività e penetranza sono centinaia, cosi come le malattie “comuni”, ad alta prevalenza, multigeniche e multifattoriali. La tabella riporta solo pochi esempi, volutamente non esaustivi e proposti senza un ordine disciplinare, con la finalità di indurre una riflessione e stimolare all’approfondimento.
A nostro avviso, se vogliamo utilizzare, nel prossimo futuro, il “microscopio” genetico nella routine clinica, serve, oltre che la formazione, compagna essenziale della professione medica, l’aiuto del mercato, sperando che esso si muova verso il mondo della sanità (e non verso i cittadini attraverso i media e internet) in modo coerente, scientificamente corretto, ed efficace.
Ovvero che l’offerta dei laboratori aumenti, che sia chiara –consentendo al professionista di recepire con immediatezza l’utilità dei singoli analiti proposti-, che sia armonizzata con le altre analisi fenotipiche che il Medico già utilizza, che si basi su referti interpretati e interpretabili da tutti, in ossequio alla nuova disciplina europea, che vede nella corretta completa e chiara informazione un elemento essenziale.
La ricerca e l’integrazione tra clinica, laboratorio strumentale (l’altro microscopio di cui parlavamo) e laboratorio di genetica sono oggi in fortissima crescita, il numero di analiti disponibili è più che centuplicato, i costi, anni addietro proibitivi, sono alla portata di chiunque e non rischiano di creare discriminazioni sul censo e coorti neglette.
In più le analisi genetiche hanno alcuni vantaggi indubbi. Infatti:
a) hanno “valore clinico” per tutta la vita della persona, non sono da ripetere periodicamente, e la informazione che esse contengono sarà additiva o moltiplicativa via via che le ricerche progrediranno;
b) danno indicazioni che possono essere utilizzate (“proiettate”) sui familiari, in particolare nel primo grado, e quindi aprono la strada alla Family Medicine;
c) In molti casi informazioni sulle malattie molto prima che siano misurabili alterazioni del fenotipo di laboratorio o strumentali;
d) Spesso consentono di giocare d’anticipo, anche di decenni, sull’insorgenza delle malattie, cosa che altri analiti di solito non fanno.
Dunque se ben utilizzate consentono di effettuare diagnosi personalizzate e di avere un valore predittivo negativo o positivo sull’individuo, a differenza di altri strumenti diagnostici pensati solo per l’epidemiologia. Sono dunque il primo passo –assieme alla visione della morfologia fine- verso la Medicina delle 4 P.
Si tratta di un primo passo, perché le conoscenze sono poche, ma passo essenziale, che può determinare una svolta epocale non solo per la “mentalità” dei medici, più orientata alla previsione e alla predizione individuale, ma anche per numerosi nostri pazienti: infatti il 28 % dei cittadini potrebbe trarre un beneficio immediato e sostanziale dalla corretta applicazione delle analisi genetiche, in particolare in campo cardiovascolare e oncologico.
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[1] mastectomia preventiva a seguito del riscontro di positività del gene BRCA1, seguita a breve distanza anche da ovariectomia preventiva, con riduzione della probabilità di sviluppare tumori da più del 85% a meno del 5%.
[2] Eric Topol: The Creative Destruction of Medicine, 2010.
[3] l’attuale fase di transizione innovativa (e distruzione creativa dei vecchi modelli della medicina tradizionale) passa principalmente attraverso la genetica e la genomica, le tecnologie diagnostiche in altissima risoluzione, i big data e l’informatica clinica, le intelligenze più o meno intelligenti e più o meno artificiali, e tanto d’altro.
[4] Barbieri M: “Code Biology” (2017), Springer- Nature.
[5] Da qui in poi i riferimenti sono alla sola genetica, senza entrare nel campo delle omiche.
[6] D. Sackett, Epidemiologia Clinica: scienza di base per la Medicina, Centro Scientifico Editore, 1989