Il consenso informato preoperatorio
Nella vasta problematica relativa al “consenso informato” di cui all’art. 32 del codice di deontologia medica, particolare rilievo assume, anche alla luce di una giurisprudenza non ancora allineata su uniformi criteri di valutazione, il profilo che la questione presenta in quella delicata fase che precede il trattamento chirurgico, soprattutto in un momento storico, come quello attuale, in cui si è avuta una proliferazione – con ampie ricadute nel campo mediatico – di azioni giudiziarie avviate contro i medici in conseguenza dell’esito infausto di alcuni interventi chirurgici.
A livello statistico, infatti, nell’ultimo ventennio si è avuto un notevole incremento di processi (soprattutto penali) a carico dei medici; incremento che non può spiegarsi nella semplicistica dimensione di un presunto, ma non provato, aumento degli esiti terapeutici infausti rispetto al passato, bensì facendo piuttosto riferimento a un radicale mutamento di pensiero da parte della collettività circa il paradigma di riferimento del rapporto medico-paziente. Al cosiddetto “paternalismo medico” (ossia quel modello razionale in cui il paziente si affidava ciecamente alle mani del medico il quale decideva in piena autonomia la terapia da seguire), infatti, si è sostituita l’aspettativa sociale circa le accresciute possibilità taumaturgiche del medico parallelamente all’incessante divenire del progresso scientifico, cosicché il paziente “titolare del fondamentale diritto alla salute” è sempre meno disponibile ad accettare i margini di insuccesso insiti in ogni intervento medico, particolarmente nel campo chirurgico.
Da ciò trae origine il mutamento di orientamento, da parte della giurisprudenza, anche in senso rigoristico, teso a superare il cosiddetto “paternalismo medico”; e ciò in piena coerenza al binomio “schemi giuridici-società” indispensabile per trovare un’esatta chiave di lettura dell’evoluzione, a livello interpretativo, dei vari istituti giuridici. In questo orientamento è stato fissato un punto fermo: il consenso prestato dal paziente deve corrispondere, presupponendola come requisito imprescindibile, a una completa informazione da parte del medico; (1) quindi, la sottoscrizione da parte del paziente del relativo modulo disponibile e in uso presso tutte le strutture ospedaliere non è idonea a dimostrare che il medesimo sia stato adeguatamente e completamente informato prima di ottenerne il consenso.(2)
La problematica si presenta con varie sfaccettature che possono così sintetizzarsi:
a) interventi effettuati senza preventivo consenso del paziente;
b) interventi effettuati nonostante un espresso dissenso dell’interessato;
c) consenso prestato per un tipo di intervento nel corso del quale il chirurgo, a fronte di una nuova patologia emersa durante l’intervento medesimo con il paziente sotto anestesia totale, provvede ad ampliare l’iter operatorio in modo ben più invasivo di quello consentito.
Breve excursus sui percorsi giurisprudenziali in tema di “consenso informato preoperatorio”
Ciò premesso si può passare all’esame delle suindicate ipotesi che, dal punto di vista giuridico, presentano un comune denominatore costituito dal principio in virtù del quale qualunque intervento chirurgico eseguito senza la previa prestazione di un valido consenso del paziente deve considerarsi avvenuto in violazione tanto dell’art. 32 comma 2 della Costituzione (a norma del quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), quanto dell’art. 13 della Costituzione (che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, nonché dell’art. 33 L. 23/12/1978 n. 833 (che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo, e non ricorrono in presupposti dello “stato di necessità” di cui all’art. 54 cod. pen.) e, infine, dell’art. 32 del codice di deontologia medica vigente.
Trattasi di un principio, per così dire, granitico se si tiene conto che la prefata violazione può correttamente configurarsi a prescindere dalla circostanza che, nel caso concreto, l’intervento sia stato corretto secondo la lex artis (3) o, addirittura, abbia avuto un esito fausto. (4)
A) Interventi effettuati senza il preventivo consenso del paziente
Occorre innanzi tutto premettere che la mancanza di consenso si ha non soltanto quando il medico ometta la relativa richiesta preventiva al paziente (ipotesi che, in concreto, si pone come “caso limite”) ma, altresì (ed è questo il caso più frequente) quando il consenso sia prestato a fronte di un’informazione meramente formale e, quindi, sostanzialmente superficiale o lacunosa o, peggio, fornita sulla base di una previsione diagnostica ipotetica in quanto non supportata dai dovuti accertamenti preventivi. (5) In questi casi, la violazione della norma deontologica con le eventuali implicazioni di rilevanza penale o di responsabilità civilistica può trovare soltanto eccezionalmente una causa di giustificazione che non è certamente quella derivante dall’adempimento di un dovere del medico né quella fondata sull’esercizio di un diritto da parte del medico medesimo. La prima, invero, si basa su una sorta di “obbligo di assistenza” che sorgerebbe da norme di natura deontologica e che avrebbe, come corollario una specie di dovere del paziente a farsi curare; tesi alla quale non si può aderire (6) per la semplice ragione che per questa via verrebbe sminuita oltre misura la sfera di autodeterminazione del paziente per cui la tesi stessa sarebbe compatibile nell’ambito di un ordinamento di tipo paternalistico-autoritario, ma non nell’ordinamento giuridico di uno Stato – quale quello disegnato dalla nostra carta costituzionale – che tutela la sfera di libert. personale di ciascun cittadino con la sola eccezione, in subiecta materia, del trattamento sanitario obbligatorio che, però, trova la sua ratio legis nella necessità di tutelare interessi di carattere generale. L’unica causa di giustificazione adducibile sta nel fatto, ovviamente da dimostrare, che il medico si è trovato ad agire in quello “stato di necessità” che dà luogo alla scriminante ex art. 54 cod. pen. Come si è detto, tuttavia, si tratta di una causa di giustificazione di carattere eccezionale; atteso, infatti, che la previsione normativa fa riferimento a un “pericolo attuale di un danno grave alla persona non altrimenti evitabile”, diventa determinante la patologia che presenta il paziente, nel senso che la sicura mortalit. oppure la certa permanenza di conseguenze irreversibili della malattia di cui il medesimo fosse afflitto potrebbe integrare la fattispecie dello stato di necessit. tenendo conto che una interpretazione più rigorosa dell’espressione “pericolo attuale” può limitare la scri‑ minante esclusivamente nel caso di presenza di forme morbose che richiedono un intervento chirurgico immediato e non procrastinabile anche di poco tempo (come, ad esempio, nel caso di peritonite o emorragia interna).
Per vero, si deve ricordare che, nell’ipotesi in esame, si è tentato, come strategia difensiva, di fare ricorso al cosiddetto “consenso tacito o presunto” da intendersi nel senso che se il paziente fosse stato adeguatamente informato avrebbe comunque prestato il consenso. L’argomentazione è insostenibile sotto vari aspetti. In primo luogo, se, come si è espressa una giurisprudenza minoritaria, il consenso del paziente rientra nella scriminante del “consenso dell’avente diritto” di cui all’art. 50 cod. pen., (7) il consenso presunto si configura quando il soggetto che compie l’azione sa che non vi è il consenso, ma ritiene che il soggetto passivo, se ne fosse stato in grado, lo avrebbe accordato; tuttavia, si ritiene prevalentemente che in tal caso il consenso presunto non abbia alcun valore scriminante. In secondo luogo, la dimostrazione della presenza di un consenso presunto è particolarmente ardua in quanto la relativa valutazione deve essere fatta con il massimo rigore avendo, appunto, il consenso presunto come oggetto l’integrità fisica della persona costituzionalmente tutelata dall’art. 13 della Costituzione; valutazione da condursi secondo due criteri tra loro complementari: uno soggettivo e uno oggettivo. Muovendo dal presupposto assiomatico che il consenso non è reale ma presupposto con una ricostruzione in via ipotetica, il criterio soggettivo si fonda su elementi riconducibili alla volontà del paziente o al suo comportamento precedente all’intervento chirurgico (elementi la cui prova è sempre problematica); il criterio oggettivo, per contro, si fonda sul giudizio in generale ricavabile dalla netta prevalenza dei vantaggi derivanti dall’intervento rispetto a quello della sua omissione, nel senso che un rifiuto sarebbe irragionevole secondo la generalità degli uomini o, meglio, secondo la valutazione dei medici. Anche il criterio oggettivo, così strutturato, è tuttavia inappagante poiché l’irragionevolezza del rifiuto secondo l’opinione della generalità degli uomini costituisce un veicolo inferenziale assai labile (quanto meno sotto il profilo che non tutti gli uomini ragionano nello stesso modo quando si tratta di assumere decisioni importanti sulla loro salute), mentre l’irragionevolezza secondo la valutazione dei medici introduce sostanzialmente un contrasto inaccettabile posto che la medesima è normalmente improntata a una presunta autolegittimazione (in virtù di conoscenze tecniche che il paziente di regola non possiede), a fronte di quel diritto all’autode‑ terminazione garantito al paziente a livello costituzionale e normativo. (8)
B) Interventi effettuati nonostante un espresso dissenso dell’interessato
Trattasi della violazione più grave in materia di consenso informato. A parte, infatti, le ipotesi in cui il paziente, nel momento della decisione, non sia nello stato di capacità di intendere e di volere e, pertanto, esprima un diniego che non è frutto di una consapevole determinazione, è lo stesso codice di deontologia medica vigente a vietare in ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il compimento di qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente (art. 32 comma 4). L’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità sul punto specifico, (9) è nel senso che, mediando fra l’esclusiva valorizzazione della finalità terapeutica (intesa dal punto di vista penalistico come mancanza della volontà del medico a causare una malattia del corpo o della mente, ma piuttosto la volontà di vincerla) e il consenso del paziente, la penale responsabilità del medico deve essere limitata all’ipotesi di un intervento chirurgico effettuato “contro la volontà espressa e conclamata del paziente”. Sul grado di responsabilità, come accennato in premessa, la giurisprudenza è oscillante; infatti a un indirizzo rigoristico che ha configurato, nel caso di esito infausto dell’intervento chirurgico, la fattispecie di lesioni volontarie ovvero, in caso di morte, la fattispecie di omicidio preterintenzionale, si contrappone un altro indirizzo che, sulla premessa argomentativa di “una eccessiva enfatizzazione in chiave giuridica della rilevanza del consenso informato”, sminuisce la rilevanza giuridica del rifiuto delle cure espresso consapevolmente dal paziente allegando una sostanziale incapacità del soggetto malato di manifestare liberamente il suo intendimento rispetto alla proposta del medico (in quanto raramente può sussistere un rifiuto alle cure autentico e genuino dal momento che colui che versa in pericolo di vita o di danno grave alla persona, a causa dell’inevitabile turbamento della coscienza generato dalla malattia, difficilmente è in grado di manifestare liberamente il suo intendimento), con la conse‑ guenza logica che il medico si riappropria della propria potestà di cura nell’interesse del paziente (10) senza, pertanto, incorrere in alcuna sanzione.
Ovviamente, anche nell’ipotesi di intervento contro il rifiuto espresso del paziente, opera la scriminante dello stato di necessità ex art. 54 cod. pen. quando sussistono condizioni di necessità e di urgenza, accompagnate da grave turbamento intellettivo del paziente medesimo, tali da generare pericolo attuale per la vita o la salute del medesimo; condizioni che devono essere dimostrate scientificamente e non con diagnosi a posteriori sempre discutibili.
C) Consenso prestato per un tipo di intervento nel corso del quale il chirurgo, a fronte di una nuova patologia emersa durante l’intervento medesimo con il paziente sotto anestesia totale, provvede ad ampliare l’iter operatorio in modo ben più invasivo di quello consentito
Delle tre ipotesi prese in esame, è quella che si presenta come la più delicata in quanto tocca una casistica non uniforme per le peculiarità delle varie fattispecie concrete che in essa rientrano. L’unico punto base, comune a tutti i casi, è costituito dal fatto che il paziente, adeguatamente informato, ha prestato il proprio consenso limitatamente a un certo tipo di intervento; la variante è invece data dalla patologia emergente nel corso dell’intervento e che il chirurgo deve valutare. Al riguardo deve innanzi tutto farsi una distinzione ben precisa, di ordine generale, tra i casi in cui il chirurgo conosca in anticipo, all’esito degli esami clinici preoperatorii, che una determinata patologia più grave emergerà nel corso dell’intervento programmato e per il quale il paziente ha dato il proprio consenso e i casi in cui la nuova patologia si presenti inaspettatamente in corso di intervento. Nella prima eventualità, in relazione alla liceità di ampliamento in modo più invasivo dell’intervento chirurgico è possibile fissare un discrimine a seconda che il medico abbia chiaramente informato il paziente e questi abbia dato il proprio consenso limitatamente a un intervento di minor portata e perciò meno invasivo ovvero che il medico abbia taciuto al paziente la patologia più grave e poi, in corso di intervento, abbia deciso di ampliare l’intervento ben oltre i limiti del consenso informato.
Nella prima eventualità, per altro raramente verificatasi nella pratica, si viene a cadere nel caso di intervento effettuato contro l’espresso rifiuto del paziente, con le possibili conseguenze di responsabilità penale più sopra indicate sub B), in particolare per il reato di violenza privata di cui all’art. 610 cod. pen.; infatti, il paziente, sebbene conscio dell’esistenza ben più grave di quella per la quale ha accettato di sottoporsi a intervento chirurgico, ha rifiutato l’intervento di più ampia portata, soprattutto a livello di invasività, e tuttavia è stato costretto a subirlo per esclusiva volontà del medico. La seconda eventualità si è verificata più frequentemente ed è l’ipotesi che ha dato vita all’ormai famoso “caso Massimo”, (11) la cui vicenda può così riassumersi: il dott. Carlo Massimo, primario chirurgo dell’Ospedale di Careggi (Firenze) in data 19/8/1983 sottoponeva la signora Del Lago Rosanelli Pia di anni 83 a intervento chirurgico demolitivo di amputazione totale addominoperineale di retto, anziché a quello preventivo di asportazione transanale di un adenoma villoso, in completa assenza di necessità e urgenza terapeutiche che giustificassero un tale tipo di intervento e, soprattutto, senza preventivamente notiziare la paziente o i suoi familiari che non erano stati interpellati in proposito né minimamente informati dell’entità e dei concreti rischi del più grave atto operatorio che veniva eseguito e non avendo comunque ricevuto alcuna forma di consenso a intraprendere un intervento chirurgico di portata così devastante su un soggetto di età avanzata portatore unicamente di adenoma rettale benigno, giudicata dall’anestesista che l’aveva visitata il giorno prima dell’intervento in “condizioni generali gravi” tali da sconsigliare il più semplice intervento transanale per il quale era stato dato il consenso; l’intervento eseguito dal dott. Massimo cagionava alla paziente lesioni personali gravi a seguito delle quali la stessa decedeva in costanza di degenza ospedaliera il successivo 23 ottobre 1983.
La Suprema Corte di Cassazione, nel confermare la sentenza della Corte di Assise di appello di Firenze, procede secondo il seguente iter logico:
a) l’intervento chirurgico, al di fuori delle ipotesi dello stato di necessità, rientra nella sfera della scriminante del consenso; pertanto, ogni attività che prescinde da esso non è scriminata e integra la fattispecie tipica di reato;
b) alla mancanza del consenso va equiparata la sussistenza del medesimo per interventi diversi da quello proposto al paziente;
c) le lesioni in tal modo arrecate al paziente sono volontarie; se da esse deriva quale conseguenza involontaria dell’intervento la morte del medesimo paziente, si rientra nel disposto dell’art. 584 cod. pen. (omicidio preterintenzionale). (12)
Trattasi di una motivazione, per così dire, blindata nel senso che la Corte di Cassazione, attesa la mancanza di consenso all’intervento chirurgico radicale e invasivo, ha considerato corretta l’affermazione di responsabilità a titolo di dolo del chirurgo per il reato di lesioni volontarie e non solo colpose, in quanto egli si era determinato a ledere intenzionalmente o con dolo diretto l’integrità fisica di una persona fuori da ogni giustificazione o quanto meno aveva accettato il rischio che tale attività potesse provocare dei danni e non dei miglioramenti delle condizioni di salute e, sotto il profilo della responsabilità oggettiva l’evento non voluto, ossia la morte della paziente. (13)
La casistica successiva presenta, invece, un mutato orientamento giurisprudenziale in quanto la Suprema Corte ha manifestato la tendenza a escludere, in ipotesi analoghe al “caso Massimo”, che si tratti di omicidio preterintenzionale propendendo per la fattispecie dell’omicidio colposo o delle lesioni colpose (a volte a titolo di “colpa cosciente”, ossia di colpa con previsione dell’evento che costituisce un’aggravante ex art. 61 n. 3 cod. pen.). (14)
Il revirement giurisprudenziale si spiega (al di là di una certa ricorrente affermazione di principio poco condivisibile) (15) tenendo in debito conto il fatto che i casi esaminati dopo la “sentenza Massimo”, apparentemente analoghi a quello oggetto della medesima, sono però diversi negli aspetti peculiari della fattispecie. Il “caso Massimo”, infatti, come autorevolmente precisato, (16) evidenziava un quid unicum, cioè un contesto fattuale del tutto particolare e irripetibile in cui il medico, con atteggiamento arbitrario e dispotico, aveva agito in consapevole e deliberato spregio della volont. manifestata dalla paziente, la quale aveva convenuto sull’esecuzione dell’intervento purch., come le veniva assicurato dallo stesso chirurgo, fosse eseguito per via endoscopica.
Acquisito un consenso così condizionato, il medico aveva viceversa predisposto l’esecuzione di un intervento, cruento e demolitivo, del tutto diverso; è pertanto ovvio che questi aspetti del fatto facciano di “questo specifico precedente” un caso straordinario e unico, assolutamente diverso dalle fattispecie, tra di loro analoghe nella sostanza, successivamente esaminate e decise da parte della Suprema Corte.
Per primo, viene in considerazione il “caso Barese” la cui vicenda può così riassumersi: il 17 settembre 1993 la signora Gentile Rosa Anna, nell’ospedale di Lamezia Terme, era stata sottoposta a intervento chirurgico per l’asportazione di una diagnosticata cisti ovarica; nel corso di tale intervento, programmato e disposto esclusivamente per l’asportazione della cisti ovarica per la quale soltanto era stato espresso il consenso della paziente, veniva accertata la presenza di una grossa massa tumorale in zona sottoperineale e, perci., il chirurgo procedeva all’asportazione della massa nonch. dell’utero e annessi (asportazione sulla quale la paziente non aveva espresso alcun consenso e che non rivestiva alcun carattere di urgenza atteso che, tra l’altro, come evidenziato dalla perizia d’ufficio, trattandosi di un linfoma l’intervento chirurgico demolitorio . del tutto sconsigliato). Durante l’esecuzione dell’intervento, erano stati sezionati completamente i vasi iliaci esterni (arteria e vena) ed erano stati lesi i vasi ipogastrici con conseguente trombosi per interruzione del flusso ematico dell’arto inferiore destro che aveva condotto al decesso per gravissime alterazioni emodinamiche ed emocoagulative indotte da shock chirurgico, tipico da sindrome di rivascolarizzazione.
La Corte di Assise di Catanzaro, derubricando a omicidio colposo l’originaria imputazione per omicidio preterintenzionale, condannava il dott. Barese alla pena di anni due e mesi sei di reclusione; la Corte di Assise di appello di Catanzaro, con sentenza 12/7/2000, ha riaffermato la responsabilit. del dott. Barese per omicidio colposo rideterminando la pena nella misura di anni due di reclusione, respingendo l’appello del Pubblico ministero che aveva impugnato in ordine alla qualificazione del reato operata dalla Corte di Assise (omicidio colposo anzich. preterintenzionale). La Suprema Corte, investita dall’impugnazione non solo dell’imputato, ma altresì del Procuratore generale della Corte di Appello di Catanzaro, rigettava tutti i ricorsi confermando la decisione della Corte territoriale, condividendo l’argomentazione dei giudici di merito che avevano escluso un comportamento doloso dell’imputato. In effetti, la Corte di Assise era partita dalla premessa che, sulla scorta degli accertamenti strumentali eseguiti prima del programmato intervento per l’asportazione della cisti ovarica, questa era “responsabile di compressione di vasi, con conseguente gonfiore, dolenzie e chiarezze di ipopigmentazione estese”; il medico, era quindi intervenuto per eliminare questa patologia ritenendo, erroneamente, che l’intervento demolitivo fosse idoneo a questo scopo ed eseguendolo, peraltro, in modo scorretto. Ciò posto, pur rilevando che le finalità che l’agente si ripropone sono irrilevanti, la Corte ha sottolineato che, nel caso specifico, l’erronea rappresentazione della realtà si riverbera sull’elemento soggettivo così da escludere il dolo generico del delitto di lesioni volontarie ma altresì quello diretto richiesto per l’omicidio preterintenzionale, mentre invece è configurabile la “colpa” dell’imputato in quanto il medesimo aveva erroneamente ritenuto di poter eliminare non solo la patologia che si era presentata durante l’intervento, ma altresì quella preesistente che aveva giustificato l’intervento consentito. (17)
A parte la discutibile smitizzazione del “consenso informato” a favore di un’astratta e giuridicamente poco fondata “autolegittimazione del medico”, è opportuno rimarcare che il “caso Barese” presenta caratteristiche ben diverse dal “caso Massimo”, se non altro sotto il profilo che la paziente aveva dato il proprio consenso a un intervento diretto a rimuovere la causa di compressione di vasi sanguigni (ossia la cisti ovarica); consenso che il medico aveva ritenuto erroneamente di ampia portata quando durante l’operazione si era trovato di fronte a un linfoma sottoperineale e la cui asportazione chirurgica è sconsigliata dalla scienza medica, mentre nel “caso Massimo”, il chirurgo aveva completamente disatteso che il consenso della paziente era stato chiaramente subordinato alla condizione che l’intervento dovesse limitarsi all’asportazione endoscopica dell’adenoma villoso. Nel medesimo filone di revirement giurisprudenziale merita attenzione il “caso Volterrani”. (18)
In breve, la vicenda: il 23 ottobre 1995, il sig. Annibale Moroni veniva ricoverato nell’ospedale di Avigliana per ernia ombelicale. Il giorno seguente il dott. Volterrani lo sottoponeva a intervento chirurgico ma, pur avendo ottenuto il consenso del paziente solo alla riduzione dell’ernia e all’esplorazione della cavit. addominale, avendo da tale ultima fase dell’intervento ricavato la presenza, gi. adombrata dall’esito di un’indagine eseguita alcuni giorni prima in un altro nosocomio – ma non comunicata nè al Moroni nè ai suoi familiari – di un tumore maligno, procedeva a “duodenocefalopancreasectomia”; per sopravvenute complicanze di varia natura il paziente, dopo avere subito altri tre interventi chirurgici da parte dello stesso Volterrani e un quarto in un ospedale parigino, decedeva il 23 novembre 1995. A seguito della denuncia presentata dalla figlia del paziente, il dott. Volterrani era rinviato a giudizio per il reato di cui all’art. 584 cod. pen. in quanto aveva eseguito “un intervento altamente invasivo, demolitivo, mutilante e complesso, senza informare preventivamente il paziente, senza compiere ulteriori accertamenti confermativi del sospetto carcinoma e in assenza di qualsivoglia stato di necessit. ovvero di urgenza di cos. intervenire”. In esito a giudizio abbreviato, con sentenza 10 ottobre 1998 il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino riteneva il dott. Volterrani colpevole dei reati di cui agli artt. 610 (violenza privata) e 586 (morte come conseguenza di altro delitto doloso), così mutando e sdoppiando l’accusa originaria, e lo condannava alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione. Successivamente, la Corte di appello di Torino, decidendo sulle impugnazioni proposte dal Pubblico ministero e dall’imputato, con sentenza 10/5/2000, ripristinava l’originaria contestazione ed elevava la pena ad anni due, mesi undici e venti giorni di reclusione. Con decisione 15 febbraio 2001, la Suprema Corte, investita del ricorso del Volterrani, rilevato che l’appello proposto dal Pubblico ministero avverso la pronuncia di primo grado avesse prodotto la reviviscenza dell’imputazione pi. grave la cui cognizione spettava alla Corte di Assise di appello, annullava la decisione della Corte di appello e trasmetteva gli atti all’organo competente. Con sentenza del 3 ottobre 2001, la Corte di Assise di appello di Torino assolse il dott. Volterrani con formula ampia.
Contro questa sentenza, il Procuratore generale propose ricorso per cassazione e la Suprema Corte, con sentenza 29/5/2002, si è pronunciata per la conferma della sentenza disattendendo le diverse conclusioni del Procuratore generale d’udienza. In buona sostanza, la Suprema Corte, censurata l’enfatizzazione in chiave giuridica del “consenso informato” nel senso che la volontà del paziente in ambito giuridico e penalistico svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia espressa in forma inequivocabilmente negativa, privilegia la legittimazione del medico, a livello di un vero e proprio diritto, a sottoporre il paziente affidato alle sue cure al trattamento terapeutico che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello stesso, anche in assenza di un esplicito consenso. Tale decisione non è andata esente da critiche fondate sull’ingiustificata svalorizzazione, da parte dei giudici di legittimità, da un lato, della normativa, non soltanto deontologica del “consenso informato” (19) e, dall’altro, su un inusitato ritorno alla fase del cosiddetto “paternalismo medico” nella quale il paziente si affidava completamente alla scienza altrui senza partecipare alle scelte terapeutiche che lo avrebbero riguardato in base al presupposto che solo il medico possiede le competenze tecniche necessarie per effettuare difficili scelte discrezionali, essendo perciò insito nella natura fiduciaria del rapporto l’abbandono del cliente al professionista. In quest’ottica, la Suprema Corte ha sviluppato due argomentazioni che, tuttavia, ad avviso di chi scrive, non possono fare stato in quanto giuridicamente molto discutibili. In primo luogo, infatti, i giudici di legittimità hanno dilatato il concetto di “stato di necessità” prospettando l’esistenza, nel sistema, di uno “stato di necessità generale”, per così dire istituzionalizzata, intrinseco all’attività terapeutica, omettendo di considerare che la realtà medica è ben più complessa talché è raro che vi sia un unico modo per salvare la vita del paziente o almeno per migliorane la qualità. (20)
In secondo luogo, la Corte di cassazione nella “sentenza Volterrani” sminuisce in modo vistoso la rilevanza giuridica del consenso del paziente alla luce di una serie di considerazioni relative alla sostanziale incapacità del soggetto malato di manifestare liberamente il suo intendimento rispetto alla proposta del medico, posto che chi versa in pericolo di vita o di danno grave alla persona, a causa del grave turbamento della coscienza generato dalla malattia, difficilmente è in grado di manifestare liberamente la propria volontà, così da potersi affermare che raramente può sussistere un rifiuto delle cure “autentico e genuino”. Trattasi di una considerazione metagiuridica che, come tale, non può trovare ingresso in un serio discorso motivazionale di una decisione giudiziaria, (21) non potendo, per questa sua natura, fondare giuridicamente l’apodittica affermazione dei giudici di legittimità, ossia che “il medico è legittimato a sottoporre il paziente, affidato alle sue cure, al trattamento terapeutico che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello stesso, anche in assenza di esplicito consenso”; principio insostenibile in quanto contrasta in modo insanabile e con il codice di deontologia medica e con la Convenzione di Oviedo le cui norme in materia collimano con l’art. 32 della carta costituzionale.
Infine, la Suprema Corte, nel confermare la sentenza assolutoria della Corte di Assise di appello di Torino in sede di rinvio mutando addirittura la relativa formula “perché il fatto non costituisce reato” in “perché il fatto non sussiste”, ha escluso che l’intervento chirurgico senza il preventivo consenso del paziente possa concretare il delitto di “lesioni personali” per mancanza dell’elemento soggettivo del reato, (22) né tanto meno il delitto di violenza privata (ex art. 610 cod. pen.) aggravato dall’art. 586 cod. pen. (morte o lesioni derivanti da altro delitto), sul presupposto che nell’intervento del chirurgo mancherebbe comunque il requisito della “violenza” o della “minaccia” riscontrabile, a detta della Corte di cassazione, esclusivamente nell’ipotesi in cui il chirurgo intervenga a fronte di un “esplicito rifiuto del paziente”; in tale caso la violenza – che secondo dottrina e giurisprudenza in sede di interpretazione dell’art. 610 cod. pen. può essere realizzata con i mezzi più diversi – consisterebbe nel fatto che il chirurgo dopo avere sottoposto ad anestesia totale il paziente, privandolo della libertà di autodeterminazione (che è il bene tutelato dalla norma) lo sottopone a un intervento operatorio preventivamente rifiutato. I giudici di legittimità, tuttavia, non spiegano quale sia l’esatto discrimine tra “rifiuto del consenso” e “consenso limitato ad un intervento diverso” e molto meno invasivo di quello invece eseguito oltre i confini del consenso medesimo e in assenza di uno stato di necessità per la vita o la salute del paziente medesimo. La verità è che la Corte di cassazione, nel “caso Volterrani”, ha condizionato tutta la propria argomentazione all’apodittico e non condivisibile presupposto che l’attività del medico, soprattutto nel campo della chirurgia, trova la sua legittimità, soprattutto dal punto di vista penalistico, non nel consenso informato del paziente, ma in una autolegittimazione insita in re ipsa nella funzione del trattamento medico-chirurgico sotto il profilo della sua “adeguatezza sociale”, della sua rilevanza come “attivit. altamente sociale” e del suo indirizzo a una “azione terapeutica in senso lato, che corrisponde all’interesse sociale, che lo Stato tutela in quanto attuazione concreta del diritto alla salute riconosciuto ad ogni individuo per il bene di tutti dall’art. 32 della Costituzione”. (23)
Per completezza di esposizione, rimane da affrontare un ultimo quesito riguardante l’anestesia. In altri termini, l’interrogativo che ci si pone . il seguente: il consenso all’intervento chirurgico vale come consenso all’anestesia?
Sul punto, è necessario muovere da un’imprescindibile considerazione di fondo, ossia che l’obbligo di dettagliata informazione al paziente per ottenerne il consenso è esteso anche alle diverse anestesie con i relativi rischi. Si deve, infatti, ricordare che fino all’inizio dell’anno 1997 l’obbligo di informazione sulla tipologia del trattamento anestesiologico era costruito come “obbligo integrativo strumentale” perché funzionalmente rivolto all’esatto adempimento della prestazione medica. Un revirement della Corte di cassazione, proprio nel 1997, ha preso posizione sul problema dell’estensione del dovere di informazione, che si presenta sempre più frequentemente, soprattutto nei casi di operazioni chirurgiche complesse affermando la necessità del consenso consapevole o informato del paziente sotto un duplice profilo: uno, diacronico, relativo alla fase preliminare e diagnostica, prodromica all’intervento chirurgico e a quella postoperatoria; l’altro, analitico, concernente le singole attività accessorie, indispensabili all’intervento chirurgico in senso stretto, ma dotate di una propria autonomia gestionale, come appunto il trattamento anestesiologico. (24)
I giudici di legittimità, con la loro decisione, capovolgendo la decisione dei giudici del merito, hanno fissato il principio in virtù del quale il paziente deve essere specificamente edotto, oltre che sui rischi dell’intervento chirurgico, anche su quelli delle tecniche metodologiche anestetiche soprattutto quando sia possibile effettuare l’operazione scegliendo tra un ventaglio di trattamenti anestesiologici, ciascuno comportante rischi di diversa intensità; e, sul tipo di anestesia prescelto, al paziente deve essere richiesto lo specifico consenso. (25)
Il principio ha trovato successiva applicazione nel “caso Cicarelli”. (26) La vicenda che aveva dato luogo al procedimento penale era stata la seguente: il giorno 22 ottobre 1993, nell’ospedale di Caltagirone, Giuseppe Margani, cui era stata praticata anestesia generale al fine di procedere a intervento di artroscopia in blocco meniscale, decedeva per collasso cardiocircolatorio conseguente a insufficienza respiratoria causante asfissia la cui causa fu individuata nell’azione del farmaco utilizzato per realizzare l’anestesia. Il pretore di Caltagirone condannò, concedendo le attenuanti generiche, la dottoressa Cicarelli alla pena di mesi sei di reclusione per omicidio colposo; sentenza confermata dalla Corte di appello di Catania. La Corte di cassazione, invece, ha annullato senza rinvio tale sentenza con un’argomentazione che trova il suo fulcro proprio nella rilevanza determinante che il consenso informato del paziente sul trattamento anestesiologico assume nella valutazione dell’eventuale responsabilità penale del medico. Nel caso specifico, invero, dagli atti processuali era emerso al di là di ogni ragionevole dubbio che il paziente dapprima aveva dato espressamente il consenso all’anestesia locoregionale subaracnoidea (epidurale); poi, il paziente, nel momento in cui si stava praticando l’iniezione epidurale, spaventato da un primo tentativo non riuscito (evento del tutto ordinario), revocò il consenso a tale anestesia manifestando ferma opposizione. In questa situazione, atteso che il paziente, in sede di programmazione dell’intervento, aveva espresso anche consenso per l’anestesia generale presentatagli più rischiosa a causa delle alterazioni anatomiche del collo e, altresì, che il medico specialista aveva richiesto un intervento chirurgico ad horas e già altra volta rimasto ineseguito, si era proceduto all’anestesia totale. La parte più interessante della decisione della Corte di cassazione è quella concernente la severa censura all’argomentazione della Corte territoriale che contestava alla dottoressa Cicarelli di non avere violato il dissenso del paziente adottando pratiche idonee ad annullarne la volontà (con opportuni accorgimenti di sedazione e di ipno-analgesia) per procedere all’anestesia periferica; i giudici di legittimità, infatti, in primo luogo stigmatizzano che l’argomentazione della Corte di appello si traduce sostanzialmente nell’istigazione a commettere un reato e in secondo luogo, e soprattutto per il tema che qui interessa, rilevano che il medico non può procedere a un tipo di anestesia senza il consenso o addirittura contro il dissenso espresso del paziente pienamente cosciente.
Conclusioni
È tempo ormai di concludere l’excursus con cui abbiamo cercato di tracciare almeno a grandi linee, in mancanza di una normativa specifica, i percorsi giurisprudenziali in tema di “consenso informato preoperatorio” nel quadro di una problematica che si presenta con varie sfaccettature.
La prima considerazione che viene spontanea e con interrogativi inquietanti è la seguente: in assenza di una disciplina penale espressa, sia la dottrina giuridica e medicolegale e sia, soprattutto, la giurisprudenza sono ondivaghe e, in ogni caso, non univoche; (27) difetto, questo, non di poco conto se si tiene conto che il sistema penale in una materia così delicata come quella del “consenso informato preoperatorio” (28) non può affidarsi al cosiddetto “diritto giurisprudenziale”, estraneo al nostro pensiero giuridico, diversamente da quanto è invece peculiare per gli ordinamenti giuridici di matrice anglosassone, e che, in buona sostanza, pone ad alto rischio il principio fondamentale, particolarmente in materia penale, della “certezza del diritto”. Aggiungasi che l’assenza di un’espressa normativa penale lascia libero campo all’interpretazione che può assumere contorni al confine estremo della “interpretazione analogica” (29) vietata in materia penale dall’art. 25 della Costituzione come corollario al principio di legalità (nullum crimen sine lege) e dall’art. 14 delle “Disposizioni sulla legge in generale” che precedono il testo del codice civile, o che può pervenire a soluzioni di dubbia compatibilità con i principi di stretta legalità e tassatività della fattispecie penale. (30)
Per uscire dal pericoloso e non condivisibile equivoco socio-giuridico, come minimum sarebbe auspicabile un intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione che, nella istituzionale e tipica funzione nomofilattica, dettassero un indirizzo univoco tale da garantire un trattamento uniforme di casi simili. È vero che, come l’esperienza forense insegna, il dettato delle Sezioni unite non è vincolante per gli altri giudici, (31) ma è altrettanto innegabile che, normalmente, una decisione delle Sezioni unite fissa, almeno in linea di principio, un criterio univoco di interpretazione.
De iure condendo, la soluzione ottimale auspicabile potrebbe essere data da un intervento del legislatore che, in sintonia con altri ordinamenti europei, (32) inserisse nel sistema del codice penale una precisa fattispecie di reato dai contorni ben precisi relativa al trattamento terapeutico, specialmente chirurgico, eseguito senza l’espresso consenso del paziente o, addirittura, contro l’espresso rifiuto del medesimo; fattispecie che deve trovare un punto di equilibrio tra interesse sociale all’esercizio dell’attività medica (che è anche un interesse individuale dello stesso malato) e il principio di autodeterminazione consapevole, attraverso un bilanciamento delle posizioni che eviti il rischio di polarizzarsi a favore dell’una o dell’altro con il deprecabile effetto di alterare in senso negativo il rapporto medico-paziente. In realtà, nella progettata riforma del codice penale sulla quale si discute da circa un ventennio, la Commissione presieduta dal penalista prof. Pagliaro nel 1992 ebbe a proporre una fattispecie autonoma di reato per il trattamento sanitario effettuato senza il consenso, collocata tra i delitti contro la libertà morale dell’individuo (prevedendone la perseguibilità a querela di parte e l’esclusione della punibilità quando il fatto comporti vantaggio senza alcun pregiudizio alla persona); ma la successiva Commissione presieduta dal prof. Grosso ha ritenuto di non intervenire nel settore di regolamentazione dell’attività medico-chirurgica, in primis per non rischiare di irrigidire una disciplina che, secondo il giudizio della Commissione, pareva più opportuno riservare ai canoni ormai consolidati della “prassi e della giurisprudenza” (33) con una valutazione disattesa dai successivi interventi contrastanti fra loro della Corte di cassazione. Il tema, nonostante la sua rilevanza, non è più stato affrontato secondo il noto e non apprezzabile “costume italico”.
Allo stato attuale della giurisprudenza e della lacunosa legislazione in materia, l’uomo di legge può soltanto consigliare al medico, in specie al chirurgo, di comportarsi con la massima e più scrupolosa cautela a fronte di un consenso non informato o parzialmente informato o di un consenso prestato per un tipo diverso di intervento o di rifiuto espresso e incondizionato del paziente; non ci si deve mai dimenticare, invero, che sull’attività del chirurgo aleggia sempre, come un fantasma, il pericolo dei possibili revirements della giurisprudenza che nelle sue decisioni può subire, umanamente, le pressioni morali determinate dal clamore destato per certi casi eclatanti, con l’inevitabile contributo dei mass media; clamore che, nella coscienza sociale, rafforza una reazione, in termini di generalizzazione, contro una conclamata malpractice medica che, obiettivamente, costituisce l’eccezione e non la regola.
Nevio Scapini
Già Professore di ruolo della Facoltà di Giurisprudenza,
Università degli Studi di Parma,
Avvocato cassazionista del Foro di Torino.
Note
1. Ex plurimis Cassazione civile sez. III, 14/3/2006 n. 5444, in Danno e responsabilità 2006, 564; Cassazione penale sez. IV, 21/10/2005 n. 38852, in Resp. civ. 2006, 278. È fondamentale ricordare che il Comitato nazionale di bioetica ha emanato, in data 2 giugno 1992 un apposito documento relativo al consenso all’atto medico chiarendone i seguenti requisiti per i quali sono necessarie: a) un’offerta di informazione secondo uno standard professionale; b) la comprensione dell’informazione da parte del paziente; c) la libertà decisionale del medesimo; d) la capacità decisionale del paziente; e) modalità univoche di espressione del consenso; f) tempestività dell’informazione; g) completezza dell’informazione con riferimento ai pericoli che l’intervento comporta. La Suprema Corte (Cass. civ.sez. III, 13/1/1997 n. 364, in I contratti 1997, 339) ha a sua volta indicato le regole che disciplinano l’informazione del paziente al trattamento medicochirurgico in questi termini: “Nell’ambito degli interventi chirurgici, il dovere di informazione concerne la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizioni di decidere sull’opportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento di vantaggi e rischi. L’obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, non potendosi disconoscere che l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento”. La mancanza di informazione preventiva equivale, pertanto, a mancanza del consenso; in questo senso, da ultimo, Trib. Paola, 15/5/2007, in Responsabilità civ. e prev. 2007, 2133 ss.
2. Sul punto, seri dubbi, con argomentazioni acute e penetranti, sono stati sollevati dall’amico prof. Mario Portigliatti Barbos nel suo “Il modulo medico di consenso informato: adempimento giuridico, retorica, finzione burocratica?”, in Diritto penale e processo 1998, 894 ss. Dubbi fatti propri dalla giurisprudenza; ad es. Trib. Venezia sez. III, 9/10/2004, in Danno e responsabilità 2005, 863; Trib. Genova, sez. II, 12/5/2006; Trib. Cesena, 6/8/2007, in Resp. Civ. 2008, 2, 183. Da segnalare la sen.tenza 20/10/2003 del Tribunale di Roma, in Giur. romana 2004, 460, in cui si puntualizza che ai fini di un valido consenso non è sufficiente l’atto, predisposto dal medico e sottoscritto dal paziente, nel quale quest’ultimo dichiari che gli è stata spiegata “la natura e gli effetti dell’intervento” e acconsenta “ad ogni intervento terapeutico che si renderà necessario durante il corso di tale operazione e alla somministrazione di anestetici necessari all’intervento stesso”.
3. Cassazione civile sez. III, 14/3/2006 n. 5444, in Danno e responsabilità 2006, 564.
4. Trib. Milano, 29/3/2005, in Resp. civ. e prev. 2005, 751.
5. Come nel caso, deciso con sentenza di condanna dal Tribunale di Torino, sez. I, 2/10/2006, in Giur. di merito 2007, 1445. La fattispecie, in sintesi, riguardava il consenso prestato dalla paziente a un
intervento di mastectomia sottocutanea totale bilaterale con ricostruzione proteica immediata sull’informazione che l’omissione dell’intervento l’avrebbe posta ad alto rischio oncologico poi risultato
insussistente all’esito di esami successivi che, invece, avrebbero dovuto essere eseguiti precedentemente alla decisione operatoria.
6. Trattasi di una causa di giustificazione che non trova riscontro nella giurisprudenza.
7. Giustamente la giurisprudenza maggioritaria (ex plurimis, Cass. pen. sez. I, 29/5/2002 n. 26446, in Cass. pen. 2003, 604) ha puntualizzato che l’art. 50 cod. pen. (consenso dell’avente diritto) ha un limite invalicabile di efficacia laddove precisa che deve comunque trattarsi di diritti disponibili; tra questi diritti non può certo ricomprendersi il diritto alla vita (tanto che l’art. 579 cod. pen. punisce severamente l’omicidio del consenziente) o il diritto all’integrità fisica non essendo l’uomo illimitatamente dominus membrorum suorum (come si può indurre, a livello di chiarimento dall’art. 5 cod. civ. che vieta atti di disposizione del proprio corpo quando cagionano una diminuzione permanente dell’integrità fisica); conseguentemente il consenso informato è qualcosa di ontologicamente diverso dal consenso dell’avente diritto ex art. 50 cod. pen.
8. Recentemente, il Tribunale di Rossano Calabro, nella sentenza 22/1/2007, in Giur. di merito, 2008, 113 ha affermato la responsabilità del medico che, nel corso di un secondo intervento di parto cesareo sulla medesima paziente, aveva eseguito la legatura e sezione delle tube senza il consenso dell’interessata e senza che, nel corso del parto, fossero intervenute complicanze tali da giustificare clinicamente un intervento di sterilizzazione d’urgenza. Detta sentenza, in particolare, è interessante nel punto in cui puntualizza che, al fine di rendere lecito l’operato del medico, il consenso presunto deve essere utilizzato solo in caso di effettiva necessità e deve presentare i seguenti requisiti essenziali e irrinunciabili: a) l’assenza di uno stato di incapacità provvisoria, essendo in tale ipotesi necessario che, in mancanza di stato di necessità, il medico attenda che la capacità di autodeterminarsi si riconsolidi in capo al paziente; b) l’esistenza di un prevalente interesse oggettivo all’intervento, il quale deve essere giustificato dal punto di vista tecnico con solide argomentazioni di carattere scientifico, che possano reggere a un vaglio scientifico post intervento, per cui la mera opportunità all’intervento, in assenza di pericolo immediato per il paziente, non può giustificare l’operato del sanitario senza il consenso del paziente; c) l’inesistenza di un espresso preventivo diniego all’intervento.
9. Chiaramente espresso da Cass. pen. sez. IV, 27/3/2001 n. 36519, in Riv. penale 2002, 364.
10. Così, Cass. pen. sez. I, 29/5/2002 n. 26446, in Riv. it. medicina legale 2003, 405 ss. con nota di Piero Fucci “Potere di curare del medico e diritto alla salute del paziente” il quale critica severamente il ragionamento seguito dalla Suprema Corte che in buona sostanza porterebbe a concludere che il paziente, solo perché malato, è divenuto, salva prova contraria, incapace e, quindi, ha perso ogni possibilità di curare la propria salute con modalità diverse da quelle consigliate autorevolmente dal medico. Rimarca, invece, il Fucci “La verità è ben diversa, come viene evidenziato dalla quotidianità della vita ed il paziente malato, di norma, è ben capace, se lo desidera, di prendere decisioni diverse da quelle prospettate dal medico: le ragioni del rifiuto possono essere le più diverse, ma possono essere ricondotte al desiderio di vivere la propria vita in modo soddisfacente e consono ai propri principi e desideri”. Il principio per il quale il medico non può imporre un trattamento terapeutico (soprattutto di natura chirurgica) a fronte di un esplicito rifiuto del paziente è un principio di civiltà non solo riconosciuto dal codice di deontologia medica ma, altresì, anche dalla Convenzione di Oviedo recepita dal nostro ordinamento sebbene non ancora realizzata con i dovuti decreti di attuazione. D’altra parte, come rileva il Fucci, “non appare corretto che il paziente, solo per scelta del medico curante, debba inconsapevolmente correre i rischi, talvolta di rilevante entità, di norma connessi a ogni trattamento sanitario, anche correttamente eseguito”.
11. In cui la Corte di Cassazione sez. V, con sentenza 21/4/1992, in Cass. pen. 1993, 63 ss. (con nota di G. Melillo “Condotta medica arbitraria e responsabilità penale”), ha confermato le pronunce di primo e secondo grado della Corte di Assise di Firenze che aveva condannato il chirurgo Massimo per omicidio preterintenzionale a seguito di intervento con esito infausto non consentito dalla paziente.
12. I giudici di legittimità hanno ritenuto adeguatamente motivata e perciò inattaccabile sul piano logico l’argomentazione motivazionale della Corte di merito che, attenendosi al materiale probatorio (ivi compresa la perizia d’ufficio), aveva rilevato: a) l’arbitrarietà dell’intervento radicale eseguito sulla paziente nonché la sua valenza penale non riscattabile dalla finalizzazione soggettivamente terapeutica perseguita e neppure dall’oggettiva possibilità di eliminazione della lesione, di natura benigna, con la quale la donna conviveva da molti anni; b) le sue condizioni non così gravi, tanto da farle sopportare l’intervento demolitivo e un altro a cui era stata sottoposta sei giorni dopo per rimuovere una sopravvenuta occlusione intestinale; c) la natura benigna del tumore che resta come dato fondamentale diretto a guidare la metodologia operatoria e, se conduceva a stimare l’opportunità dell’operazione chirurgica, mai poté far considerare questa urgente e ineludibile; d) la situazione dell’occhio di un chirurgo esperto come l’imputato che si adeguava perfettamente a un intervento endoscopico, quale da lui annunciato e che era stato oggetto del consenso informato della paziente e delle figlie; e) la disinvoltura deprecabile con cui il chirurgo aveva prospettato la scelta minimale, in quanto, come rimarcato dalla Corte di merito, se fosse stata in atto la situazione imminente di pericolo di vita poi sostenuta dall’imputato, tanto valeva far conoscere all’interessata l’esigenza dell’intervento radicale; f) la realizzazione sul tavolo operatorio di una diversa metodica che non può ricondursi a errore né a improvvisa insorgenza, cosicché difetta una causa penalmente giustificativa.
13. Coerentemente alla costruzione dottrinaria e giurisprudenziale dell’omicidio preterintenzionale, il cui presupposto sono le lesioni oggetto di dolo diretto dell’agente con la conseguente responsabilità oggettiva per l’evento non voluto, ossia la morte del soggetto passivo derivante dalle lesioni medesime.
14. Da intendersi come quell’atteggiamento dell’agente che, pur rappresentandosi in termini di mera possibilità o di limitata probabilità il verificarsi di un evento, si determina ugualmente al compimento di una determinata azione.
15. Ossia che l’attività del medico trovi in se stessa fondamento e giustificazione, nel senso che la liceità non deriva dal consenso dell’avente diritto ma discende dal fatto che l’attività medica tutela il bene della salute costituzionalmente garantito; quindi, una forma di autolegittimazione. E a ciò deve aggiungersi il rilievo che il consenso dell’avente diritto non può giustificare l’attività medica dal momento che tale consenso incontra limiti ben precisi nell’art. 5 del cod. civ. il quale vieta atti di disposizione del proprio corpo cagionanti una diminuzione permanente dell’integrità fisica. Così concepita, l’autolegittima.zione non convince sotto un profilo squisitamente giuridico. Sotto il primo aspetto enunciato, infatti, il principio enunciato sottace le ragioni per le quali si dovrebbe ritenere superato il dettato costitu.zionale (art. 32 comma 2) nonché l’obbligo di ottenere il consenso del paziente sancito e dal codice di deontologia medica e dalla Convenzione di Oviedo recepita per legge nell’ordinamento italiano; mentre, sotto il secondo aspetto, il riferimento all’art. 5 cod. civ. appare poco appropriato in quanto la norma vieta atti di disposizione di carattere negoziale (ad es., vendita di un rene, ecc.) come emerge dalla lettura dei lavori preparatori e della Relazione al Re sul codice civile del 1942.
16. Gianfranco Iadecola, “Sulla configurabilità del delitto di omicidio preterintenzionale in caso di trat.tamento medico con esito infausto, praticato al di fuori dell’urgenza e senza il consenso del paziente”, in Cass. pen. 2002, 527.
17. Sull’elemento soggettivo, il medesimo orientamento si trova espresso dalla stessa Corte di cassazione nella sentenza “Firenzani” (Cass. pen. sez. IV, 11/7/2001, n. 1572 in Cass. pen. 2002, 2041), nel senso che qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito fausto, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità estrinsecano l’elemento oggettivo del reato di lesioni personali ledendo l’integrità corporea del soggetto passivo, ma il criterio di imputazione soggettiva dovrà essere, invece, di carattere colposo qualora il sanitario, in assenza di valido consenso dell’ammalato, abbia effettuato l’intervento terapeutico nella convinzione, per negligenza o imprudenza a lui imputabile, dell’esistenza del consenso.
18. Deciso dalla Corte di cassazione, sez. I, con sentenza 29/5/2002 n. 26446, in Cass. Pen. 2003, 1945.
19. La Corte di cassazione, infatti, ha negato in modo disinvolto efficacia normativa alla Convenzione di Oviedo i cui articoli 3 e 8 prescrivono che, salva l’ipotesi dell’impossibilità di ottenere il consenso dell’interessato (che allora potrà comunque essere sottoposto a ogni trattamento necessario alla sua salute), l’adesione della volontà libera e informata del paziente è sempre necessaria; infatti, premesso che la suddetta Convenzione internazionale è stata ratificata in Italia dalla Legge n. 145 del 2001 senza che, tuttavia, siano stati emanati i decreti attuativi, dal punto di vista penalistico l’accordo internazionale sulla biomedicina di Oviedo non può avere alcuna efficacia. L’interpretazione non è condivisibile sul piano giuridico in quanto: a) l’art. 2 della legge di ratifica in Italia (art. 2) prevede espressamente la “piena e intera esecuzione della convenzione”; b) la delega al Governo (art. 3) di adottare con decreto legislativo ulteriori disposizioni occorrenti per l’adattamento all’ordinamento italiano ai principi contenuti nella Convenzione entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge di ratifica non può condizionare in negativo il significato dell’art. 2, atteso che le modifiche legislative di cui alla delega al Governo contenuta nell’art. 3 della legge di ratifica potevano riguardare una normativa vigente in contrasto con i principi affermati nella Convenzione o l’introduzione anche di nuove figure di reato la cui omissione, tuttavia, non è idonea a porre nel nulla la piena e intera esecutività della Convenzione nei suoi principi generali e, in particolare di quello enunciato negli articoli 3 e 8 della Convenzione (sull’efficacia della Convenzione di Oviedo almeno a livello di “direttiva anticipata”, si veda Mauro Barni, “Equilibrismi dialettici tra consenso limitato e dissenso esplicito verso l’atto medico”, in Riv. it. medicina legale 2003, 402 ss.). Anche perché il principio della necessità del consenso informato, come ampiamente chiarito da G. Marra, “Ritorno indietro di dieci anni sul tema del consenso del paziente nell’attività medico-chirurgica”, in Cass. pen. 2003, 1950, è già ampiamente operante nel nostro ordinamento a seguito di una lunga serie di leggi che si sono susseguite dal 1990 in avanti.
20. Opportunamente il Fucci, Op. cit., p. 406, in contrario osserva: “D’altra parte, la ‘qualità della vita’ non è un concetto definibile in base a parametri di natura oggettiva, ma ha un contenuto prettamente soggettivo e, quindi, non può essere attribuito al medico il potere di stabilire in concreto quale deve essere la qualità della vita residua del paziente”.
21. Sul punto, osserva acutamente il Fucci, Op. e loc. cit.: “Non si vuole in questa sede negare che vi sono circostanze nelle quali è possibile che il dissenso rispetto alle cure non sia espresso senza ‘condizionamenti, interni o esterni, che possano inficiare il processo di formazione della volontà’, ma non è condivisibile ritenere che questa sia la norma, come sembra affermare la Cassazione; altrimenti si dovrebbe concludere che il paziente, solo perché malato, è divenuto – salva prova contraria – incapace e, quindi, ha perso ogni possibilità di curare la propria salute anche con modalità diverse da quelle consigliate autorevolmente dal medico. La verità è diversa, come viene evidenziato dalla quotidianità della vita e il paziente malato, di norma, è ben capace, se lo desidera, di prendere decisioni diverse da quelle prospettate dal medico. Le ragioni del rifiuto possono essere le più diverse, ma possono essere ricondotte al desiderio di vivere la propria vita in modo soddisfacente e consono ai propri prin.cipi e desideri… È, quindi, giusto che il medico verifichi se il paziente ha espresso il suo rifiuto nella consapevolezza delle conseguenze negative derivanti dal suo atteggiamento, ma questo giudizio non trova altro confine che quello, non sempre ben delineato, che deriva dalla scienza medica che, com’è noto, non ha gli stessi connotati della matematica”.
22. I giudici di legittimità hanno considerato improponibile la configurazione del delitto di cui all’art. 582 cod. pen. (lesioni dolose) rilevando che il chirurgo, il quale nell’atto operatorio amplia il proprio inter.vento ben oltre i limiti preventivamente consentiti dal paziente e al di fuori di un improvviso stato di necessità, non agisce al fine di procurare una lesione al paziente medesimo ma a fini terapeutici; in buona sostanza, la Cassazione, per obiter dictum, fa propria una tesi retorica prospettata in qualche contributo dottrinario, apparso sulle riviste specializzate dopo il “caso Massimo”, e cioè che vi è una differenza abissale tra il coltello (o il pugnale) del delinquente e il bisturi del chirurgo; differenza assiomatica e sulla quale tutti concordiamo, ma che non impinge sulla vasta problematica giuridica del consenso informato. A parte questo inciso, si deve dire che l’argomentazione seguita dalla Suprema Corte pare prospettare come elemento soggettivo del reato di lesioni volontarie il “dolo specifico”, mentre la semplice lettura della norma incriminatrice indica chiaramente che il legislatore ha contem.plato esclusivamente il “dolo generico”.
23. Per una critica accurata e condivisibile dal punto di vista giuridico all’orientamento espresso dalla Cassazione nella “sentenza Volterrani”, vedasi il corposo contributo di Francesco Viganò, “Profili penali del trattamento chirurgico eseguito senza il consenso del paziente”, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2004, 141 ss. Nel corso della sua esposizione, l’Autore sottolinea un particolare inquietante non considerato dai giudici di legittimità: il dott. Volterrani decise l’intervento di duodenocefalopancreasectomia senza prima avere eseguito un prelievo di parte della massa per gli esami istologici che, ex post, avevano evidenziato non trattarsi di carcinoma, bensì di un assai meno aggressivo “carcinoide argentaffine”. Condivide la decisione della Cassazione Gilberto Lozzi, “Intervento chirurgico con esito infausto: non ravvisabilità dell’omicidio preterintenzionale nonostante l’assenza di consenso informato”, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2003, 604 ss. limitatamente all’aspetto di cui al titolo del contributo, diversamente da quanto sostenuto dal Procuratore generale della Corte di appello di Torino nel suo ricorso. Critico anche Marra, Op. cit. Acute e meditate riserve avanza Iadecola, “Ancora in tema di rilevanza penale del consenso (e del dissenso) del paziente nel trattamento medico.chirurgico”, in Cass. Pen. 2003, 2659 ss.
24. Cass. civ. sez. III, 17/1/1997 n. 364, in Danno e responsabilità 1997, 178, con nota di V. Carbone, “L’informazione sulle possibili anestesie e sui relativi rischi”.
25. Nel caso oggetto della sentenza della Suprema Corte, la paziente, senza essere stata preventivamente informata sull’anestesia e avendo quindi dato il proprio consenso esclusivamente al programmato intervento chirurgico, in conseguenza del trattamento anestesiologico effettuato mediante puntura lombare aveva riportato un’invalidità permanente.
26. Cass. pen. sez. IV, 10/10/2001 n. 36519, in Riv. pen. 2002, 364.
27. Come dimostrano le argomentazioni adottate per il “caso Massimo” e il “caso Volterrani”, che sono oggettivamente agli antipodi del ragionamento giudiziario, inframmezzate da quella che si potrebbe definire una media sententia come nel “caso Barese”; il tutto con ricadute di un certo spessore nella giurisprudenza di merito e in altre decisioni del Supremo Collegio in casi analoghi.
28. Sul punto, coglie nel segno Marco Pelissero, “L’intervento medico in assenza di consenso. Riflessi penali incerti e dilemmi etici”, in Dir. pen. e processo 2005, 392, quando osserva: “Esistono settori dell’ordinamento nei quali la distanza tra assetto normativo e concrete esigenze di tutela si mostra in modo particolarmente evidente: è un dato immanente a ogni sistema improntato al principio di legalità, ove alla rigidità della norma si contrappone l’evoluzione della realtà sociale, economica e scientifica. Particolarmente significativi sono i risvolti in ambito penale, dove il codice del 1930 mantiene immutati interi settori di disciplina, nonostante l’approvazione della Costituzione e un profondo mutamento della sensibilità sociale rispetto a tematiche che sono, oggi, divenute delicate, nella misura in cui i profili giuridici si intrecciano a quelli scientifici ed etici, e particolarmente pressanti, tali da sollecitare soluzioni normative o, in assenza di queste, un’interpretazione evolutiva che consenta, nei limiti delle regole di ermeneutica, di forgiare una disciplina penale rimasta sostanzialmente immutata. Il tema dei riflessi penali dell’intervento medico in assenza di consenso riflette proprio questa doppia velocità tra sistema legale e sistema sociale, nel quale si è fatta strada una nuova sensibilità nella percezione del rapporto medico-paziente: da un lato, l’arsenale penalistico, pronto a colpire con le armi più temute delle fattispecie poste a tutela della libertà morale (violenza privata, in particolare) e dell’integrità fisica (dalle lesioni personali all’omicidio, nelle loro diverse forme); dall’altro lato, una nuova visione del rapporto medico-paziente, che rigetta l’approccio paternalistico, fondato sul potere-dovere del medico di curare e sulla posizione passiva del malato assoggettato alle decisioni del sanitario, e sostituisce il diverso equilibrio della c. d. alleanza terapeutica. Al potere del medico di curare si contrappone, o meglio si affianca, in qualità di limite di liceità di qualsiasi intervento sull’altra persona, l’autodeterminazione del malato al quale è riconosciuto non più il ruolo passivo di ‘paziente’, secondo l’etimologia propria del termine, ma il ruolo attivo di soggetto che, informato sul proprio stato di salute, si mostra capace di effettuare scelte consapevoli in ordine alle proprie cure, nel riconoscimento di uno spazio di libertà a garanzia della propria integrità fisica e capacità di autodeterminazione, che può arrivare sino al rifiuto di cure che hanno come effetto ultimo il sacrificio della propria vita”.
29. Come si potrebbe sostenere, sotto certi aspetti, per il “caso Massimo”.
30. In relazione a questo aspetto, significativa è l’ordinanza di archiviazione del Tribunale di Palermo 31/1/2000, in Foro it. 2000, II, col. 441 nella quale, pur trattandosi di un caso analogo al “caso Massimo”, il Tribunale non ha condiviso l’orientamento espresso a quest’ultimo riguardo dalla Cassazione penale, rilevando che, de iure condito, fino a quando non verrà introdotta nel nostro sistema penale una norma che sanzioni specificamente l’intervento medico senza previo consenso del paziente, in ossequio ai principi di stretta legalità e tassatività della fattispecie penale, non può considerarsi integrata la fattispecie di cui all’art. 584 cod. pen. (omicidio preterintenzionale) ogniqualvolta il medico abbia eseguito l’intervento chirurgico (ovviamente fuori dei casi in cui sia operante lo stato di necessità) in assenza del consenso del paziente e ne sia derivato un esito infausto, pur essendo stato l’intervento condotto e portato a termine secondo le regole dell’arte. In dottrina, un medesimo orientamento era già stato prospettato da Luciano Eusebi, “Sul mancato consenso al trattamento terapeutico: profili giuridico-penali”, in Riv. it. medicina legale 1995, 727 ss.
31. Non è infrequente il caso che singole sezioni della Corte di cassazione, così come alcuni giudici di merito, abbiano deciso casi identici a quello su cui è intervenuta l’interpretazione delle Sezioni unite, discostandosi apertamente dal dictum delle medesime.
32. Ad esempio il codice austriaco del 1974 prevede una fattispecie autonoma di reato che punisce il trattamento chirurgico arbitrario.