La congiura del silenzio nei confronti del grande vecchio

“Le persone sono come le vetrate. Scintillano e brillano quando c’è il sole, ma quando cala l’oscurità rivelano la loro bellezza solo se c’è una luce dentro“ 
Elisabeth Kübler Ross

 


La recente indagine ISTAT sulla condizione di salute degli italiani e il ricorso ai servizi sanitari disponibili ha fatto emergere due fenomeni: il progressivo invecchiamento della popolazione molto anziana, i centenari sono attualmente circa 17.000 con netta prevalenza femminile e l’aumento drammatico della disabilità nelle classi di età più avanzate con costi rilevanti. Numerosi scritti, nello stesso tempo, hanno stigmatizzato l’incapacità della classe dirigente a comprendere la modificazione strutturale della popolazione che comporta problemi non differibili sul piano sociale, pensionistico, economico, sanitario e comportamentale. La scarsa attenzione  alle modificazioni secondarie alla transizione demografica, non ne ha opportunamente considerato gli effetti che  si tradurranno in un numeroso esercito di anziani, una parte dei quali sarà non più autosufficiente. La sanità e l’assistenza non si sono adeguati ad affrontare i problemi della cronicità. L’insegnamento universitario non ha saputo cogliere questa opportunità preferendo ricerche sulla medicina d’eccellenza, certamente importanti e indispensabili, mentre ha relegato lo studio della quotidianità e della cronicità a un ruolo di Cenerentola, con grave gap culturale per i futuri medici.

Paolo Cendon, Stefano Rossi e Guendalina Scozzafava, recentemente nel 2014, hanno pubblicato un “Manifesto sugli anziani del terzo millennio”, in cui hanno scritto

Viviamo in una fase di passaggio, spettatori di un processo, quello dell’invecchiamento della popolazione, che è destinato a cambiare la società in cui viviamo. Un cambiamento più profondo di quanto si sia in genere portati a credere, certamente più rapido della nostra capacità di metabolizzarlo e di adattarvici con successo”.

Da anni seguiamo con accorata amarezza le insufficienti e scarsamente armoniche politiche sociali sugli anziani. Molti hanno scritto, numerosi sono gli interventi di associazioni scientifiche sui bisogni della popolazione anziana, ma scarse sono le applicazioni da parte di una classe dirigente che ignora o mal considera il drammatico dato anagrafico dell’invecchiamento progressivo della popolazione, in quanto non solo non lo ha capito o non ha voluto capirlo, ma, per ritornare al pensiero di Cedon e collaboratori, anche nel caso in cui questo cambiamento epocale della struttura della popolazione fosse stato capito non c’è stata capacità e voglia di metabolizzarlo, rendendo un società più giusta ed empatica.

L’anziano, oggi, è rimasto solo con la sua disabilità, la sua povertà, la sua estrema dipendenza. Si preferisce ignorare il problema, delegandolo all’ambito familiare, che viene pertanto gravato di un fardello difficilmente sopportabile. Basta osservare il comportamento degli amministratori nazionali o locali per avere contezza dei loro attuali interessi, condizionati da una fredda e forzata valutazione ragionieristica dello stato sociale, mistificata e giustificata dalla crisi economica globale.

Il Comitato Nazionale per la Bioetica sui diritti degli anziani il 20.1.2006, nel suo rapporto, ha scritto:

“… infatti, per quanto si possano doverosamente ed efficacemente rivendicare i diritti dei soggetti anziani e per quanto la medicina possa efficacemente operare per dare all’esercizio concreto di questi diritti un solido supporto biologico, resta per la condizione anziana il problema di fronteggiare l’ostacolo più grande, quel duro dato, come ha scritto Romano Guardini, della segreta ostilità che la vita in crescita oppone alla vita declinante; le resta da fronteggiare quel diffuso sentimento di disprezzo nei suoi confronti, che si ha raramente il coraggio di considerare fino in fondo e che trova la sua ultima radice nella innaturalità che in qualche modo possiede per l’uomo il diventare vecchio e la cui evidenza, stampata nei volti senili, suscita, in chi ancora vecchio non è, un turbamento profondo, che viene in genere rimosso e occultato, ma che più spesso ancora suscita sentimenti di aggressività”.

Nel 1970 Simone de Beauvior nel suo sempre interessante e attuale libro su la Veillesse, pubblicato da Galimard, per la prima volta scrisse “briser la conspiration du silence”. La filosofa francese acutamente osservò che

per tranquillizzare la coscienza della collettività, gli ideologi hanno fornito miti, del resto contraddittori, che incitano l’adulto a vedere nell’anziano non un suo simile, ma un altro. La vecchiaia resta un segreto vergognoso, un soggetto proibito. Si comprende allora che la sorte infelice riservata agli anziani dimostra il fallimento dell’intero nostro sistema sociale: è impossibile conciliarla con la morale umanistica professata dalle classi egemoni. Ecco perché bisogna rompere una congiura del silenzio”.

Posto che la definizione di congiura è un’intesa segreta tra un numero limitato di persone per abbattere il potere costituito o una macchinazione ai danni di qualcuno, c’è da chiedersi se nei confronti degli anziani sia stata mai attuata una vera congiura. Noi pensiamo che nei loro confronti  più che una congiura, nel senso etimologico del termine, “la società liquida o dell’incertezza” secondo Bauman, ha effettuato ed effettua ancora una memoria negata, preferendo ignorare il problema, attuando di fatto una congiura silente, ma comunque sempre voluta.

Una congiura non si organizza senza la volontà  di coloro che tramano: è necessario uno studio, una meticolosa preparazione, un disegno e un progetto, nonché è indispensabile avere i mezzi e la disponibilità economica sufficiente a organizzarla e realizzarla. È onesto, però, affermare che “la congiura” contro una classe debole non si realizza per la perversa cattiveria di chi governa o per la sadica soddisfazione di tenere schiavizzata una parte della popolazione ritenuta improduttiva e come tale un fardello di cui sarebbe meglio disfarsene. La congiura si attua perché vengono privilegiati altri obiettivi e vengono soddisfatti altri bisogni ritenuti impropriamente prioritari.

La coltre di silenzio sulla condizione anziana parte da lontano, trova giustificazioni nella modificazione della struttura familiare, nella mancanza di una concreta rete assistenziale, anche se i padri costituzionali all’articolo due della Costituzione italiana avevano scritto che

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. E richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

L’idea di fondo del pensiero costituzionale è che esistono dei diritti naturali, dei diritti, cioè, che appartengono per natura all’uomo e perciò precedono l’esistenza stessa dello Stato, che dunque non li crea, ma li deve riconoscere e soprattutto garantire concretamente, attraverso leggi ordinarie. Tale concetto, che esprime l’esistenza di diritti esigibili, viene ulteriormente rafforzato dall’articolo 32 che recita

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’Individuo e interesse della collettività. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario contro la sua volontà, se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Dicevamo che  la cortina fumogena che nasconde la sofferenza dei vecchi partiva da lontano. Per secoli l’assistenza ai bisognosi e agli anziani è stata improntata alla carità e alla beneficenza esercitate da privati o associazioni religiose. Il 17 luglio 1890  fu approvata la Legge n. 6972, la cosiddetta Legge Crispi, che  ha rivoluzionato e modernizzato lo stato sociale in Italia, regolando la vita delle istituzioni pubbliche di beneficenza. Il R.D. 30. Dicembre 1923 n. 2841 modificò la dizione crispina in “istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”. Lentamente veniva annullata  la “carità legale” di Malthus con l’introduzione dell’”assistenza legale” agli anziani e agli indigenti. Successivi provvedimenti hanno dettato norme nelle più disparate materie, in modo disorganico e frammentario, mancando un reale e fattivo coordinamento a livello centrale. La legge 3 giugno 1937 n. 847, istitutiva dell’ECA (Ente Comunale di Assistenza), aveva lo scopo limitato da una parte  di “assistere gli individui e le famiglie che si trovano in condizioni di particolare necessità” e dall’altra di erogare l’assistenza sanitaria e sociale. La legge sull’Eca, anche consentiva attraverso il medico condotto un’assistenza sanitaria ai meno abbienti e agli anziani sul territorio, mancava tuttavia di una visione generale e coordinata del difficile problema dell’assistenza, che poco si ammodernava e scarsamente si adeguava ai crescenti bisogni di una popolazione che progressivamente aumentava.

La seconda guerra mondiale non ha fatto altro che acuire queste discrepanza, impedendo l’attivazione di un programma edilizio e la costruzione di ospedale moderni ed efficienti. Bisognava arrivare al  23.12.1978, con la legge. n.833 fu il SSN, per rilevare per la prima volta l’interesse del legislatore nei confronti della popolazione anziana. La legge infatti all’art.2, comma 3 prevede “la diagnosi e la cura degli eventi morbosi  quali che siano le cause, la fenomenologia e la durata” e al punto f sempre dello stesso articolo auspica “la tutela della salute  degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere  le condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione”. La  L. 12 febbraio 1968 n. 132, definita Legge Mariotti dal Ministro della sanità dell’epoca, aderendo al principio costituzionale dell’articolo 32, istituì gli Enti ospedalieri  garantendo  il ricovero ospedaliero, l’obbligatorietà dell’assistenza, la garanzia della cura, la difesa attiva della salute e la promozione della educazione igienico-sanitaria del malato e del suo nucleo familiare.

Per quanto riguarda gli anziani la Legge manifestò un netto mutamento culturale e per la prima volta furono inseriti, nell’ambito dell’organizzazione ospedaliera, divisioni di «Geriatria» e «Lungodegenza». A una prima osservazione si potrebbe finalmente esclamare “era ora!”. Purtroppo, pochi di questi reparti sono stati istituiti e sempre in modo poco consono ai reali bisogni della popolazione. Fu attuata da subito una congiura indiretta sugli anziani, in quanto la Geriatria, la medicina che avrebbe dovuto curarli con una maggiore attenzione scientifica e assistenziale,  fu costretta fin dall’inizio a presentare continuamente certificati di capacità e di efficienza e, persino, di esistenza e di identità non solo ai politici e agli amministratori ma alla stessa classe medica che con una arroganza auto-referenziaria non capiva la necessità di questa nuova branca specialistica, ritenendosi capace di curare gli anziani considerati solo degli adulti invecchiati .

Per secoli, una cultura particolaristica, specialmente, europea ha sempre avuto paura del diverso (pazzi, anziani), relegandolo, ove possibile, in ghetti ove veniva tenuto nascosto, dove era possibile non vederlo o contattarlo e silenziosamente ignorarlo. Erano gli esclusi, cui venivano perfino dati tratti psicologici e fisici, sempre di orrida bruttezza, anche sulla scorta delle teorie positivistiche di Lombroso. Veniva creata una razza, o meglio un sottorazza che riferita agli anziani si identificava con l’ageismo di Robert Buttler

Nel villaggio globale dove il 75% della popolazione vive ancora in uno stato di povertà, dove la dimensione dell’altro sembra essere tramontata, ci si chiede se sia ancora possibile essere felici.

Antonella Tissot nel 2008 ha scritto che “il concetto distorto e tirannico di  felicità, come un bene accessibile a tutti e democraticamente condivisibile ci rende insensibili, ciechi di fronte al dolore, allergici alla malattia, alla vecchiaia e alla morte”.

La società postmoderna e postindustriale odierna, nell’illusione di un estetismo ellenistico, respinge, ignora, non concede diritti esigibili agli anziani e si veste di un orrido juvenilismo, attuando una patetica sindrome di Peter Pan o di Piccolo Principe.

Pier Paolo Pasolini nelle Lettere luterane (1976) affermò che “da alcuni anni i giovani, i ragazzi fanno di tutto per apparire brutti. Si conciano in modo orribile. Fin che non sono del tutto mascherati o deturpati, non sono contenti. Si vergognano dei loro eventuali ricci, del roseo o  bruno splendore delle loro gote, si vergognano della luce dei loro occhi, dovuta appunto al candore della giovinezza, si vergognano della bellezza del loro corpo”.

In questo contesto, dove i media continuano a sottolineare la disoccupazione giovanile, il disagio dei teenagers come gli unici problemi che una politica sociale debba risolvere, l’anziano viene dimenticato, lasciato solo, abbandonato in una fase storica in cui il capitale sociale si sta continuamente riducendo. Ricordiamo che per Robert Putman il Capitale sociale è l’insieme di operazioni volte a mantenere un rapporto vivo tra i  componenti di una società.  Esprime la ricchezza di relazioni e contatti che si sviluppano nella società a vari livelli, grazie alla capacità  e alla volontà degli individui di costruire uno stile di vita ispirato alla collaborazione e alla costruzione di percorsi di vita comuni. Per Putman (2001) il danno provocato da un basso Capitale Sociale sarebbe pari a quello del fumo di sigaretta. Recentemente (novembre  2014) Paul  Johnson, Director for Fiscal Studies, ha pubblicato su GMT un articolo “There’s a conspirancy of silence on the budget deficit crisis”, dove  suggeriva un aumento delle tasse come unico rimedio per risolvere i costi crescenti secondari al trattamento delle malattie croniche degli anziani.

Un soggetto richiede una relazione viva con almeno un’altra persona, se c’è un vincolo sentito o un legame. Senza questo minimo rapporto, la psiche umana si disgrega, tranne nei casi più eccezionali. È anche necessario per un individuo avere un posto significativo in un raggruppamento umano, tenuto assieme sulla base di relazioni di famiglia, amicizia, occupazione, religione, nell’individuo, così come l’individuo all’interno del gruppo (Kitwood, 1999).

Cosa può fare in modo autonomo l’anziano per sbriciolare questo congiura del silenzio nei suoi confronti? Deve subire, perdere la dignità umana e accettare passivamente di essere cancellato come un ebreo braccato dai nazisti, oppure può trovare la forza per reagire e riacquistare tutta la dignità di uomo, trovando nell’esperienza la strada maestra per sconfiggere la fragilità della vecchiaia e l’ageismo? S. Bauman ne “La società liquida” scrive:

“…sembra di vivere in un universo di Escher, dove nessuno, in nessun punto è in grado di distinguere una strada che porta in cima, da una china discendente. Le identità sono vestiti da indossare e mostrare, non da mettere da parte e tenere al sicuro”.

Per vincere questa congiura l’anziano deve avere anzitutto fiducia in sé e non avere paura verso qualcosa che non conosce e che non vede, ma che sente greve sulla propria pelle e deve far uso delle proprie risorse e di quelle ambientali. Deve essere in poche parole resiliente. Non bisogna temere quelle qualificazioni negative che possono essere ritorte all’infinito. Bisogna essere necessariamente resilienti, cercare rapporti, crearsi nuove amicizie per evitare che la vita diventi, nel ricordo, solo un assillo e un tormentoso film muto.

Per reagire e rompere la congiura del silenzio che pietrifica la relazione e l’empatia come lo sguardo di Medusa, bisogna avere sempre la forza di reagire. Bisogna fare ciò, diversamente da come  fece Perseo, che con l’aiuto di uno specchio riuscì a non farsi vedere da Medusa. Il vecchio lo specchio lo deve rivolgere alla classe dominante perché veda, osservi e consideri ciò che non vuole vedere, osservare e considerare.

Pier Paolo Pasolini ne “Lettere luterane“, già citate, afferma che “… fin che il diverso vive la sua diversità in silenzio, chiuso nel ghetto mentale che gli viene assegnato, tutto va bene: e tutti si sentono gratificati della tolleranza che concedono. Ma se appena egli dice una parola sulla propria esperienza di diverso, oppure semplicemente, ove pronunciasse delle parole «tinte» del sentimento della sua esperienza di diverso, si scatena il linciaggio. Lo scherno più volgare, il lazzo più goliardico, l’incomprensione più feroce, lo gettano nella degradazione e nella vergogna”.

Concludiamo con una frase di Bauman (La paura liquida) “Il secolo che viene può essere  un’epoca di catastrofe definitiva. O può essere un’epoca in cui si stringerà e si darà vita a un nuovo patto tra intellettuali e popolo, inteso ormai come umanità. Speriamo di poter ancora scegliere tra questi due futuri”.

La forza dell’ottimismo non deve abbandonare l’anziano, anche se breve rimane il percorso della sua esistenza e ridotti i legami familiari e amicali. Non deve perdere mai il senso della sua dignità di uomo e la deve manifestare, ove può, contro chi lo ignora, lo disprezza e non lo tutela ed essere padrone ancora del suo futuro scegliendo “il nuovo patto tra intellettuali e popolo, inteso ormai come umanità”.

 

 

Carmine Macchione
Direttore Scientifico ACSA Magazine,
già professore di Geriatria e Gerontologia dell’Università di Torino

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