La relazione medico-paziente. Rapporto tra EBM e NBM

Il significato della stretta relazione interpersonale tra medico e paziente non potrà mai essere  troppo enfatizzato, in quanto da questo dipendono un numero infinito di diagnosi e di terapie. Una delle qualità essenziali del medico è l’interesse per l’uomo, in quanto il segreto della cura del paziente è averne cura. Francis Peabody ,1895-1979

La relazione medico-paziente, tipica relazione di cura, è una relazione complicata, difficile, asimmetrica e “tormentata”, secondo l’interpretazione di Shorter, ed è certamente influenzata dal transfert e dal controtransfert come, prima Freud e successivamente Balint, avevano ampiamente dimostrato.

Giorgio Bert, in un chiaro e interessante articolo su “Per un miglior rapporto tra medico e malato: un traguardo possibile”, scrive:  
cambia il mondo, cambiano gli strumenti e le conoscenze, ma non cambia il concetto di relazione terapeutica, che è e resta la più antica radice della medicina”.

Nell’epoca pre-storica il rapporto medico (sciamano) – malato poteva essere definito come ilparadigma dello stregone”. Tale modalità relazionale partiva dal presupposto che la malattia fosse dovuta a fattori soprannaturali riconoscibili e la terapia, basata sul riconoscimento di questi fattori, si fondava su precise misure per contrastarli. In quei tempi, la guarigione o la morte  erano  merito esclusivo dello stregone.  Dai tempi di Esculapio, degli Asclepei di Epidauro e Pergamo e di Ippocrate, che aveva già espresso il valore dell’ascolto e della partecipazione, il rapporto tra il medico e l’ammalato, che a lui si rivolgeva, è stato caratterizzato da una ferrea etica paternalistica, basata sul principio di beneficenza – obbligo di agire per il bene del paziente – e di maleficenza – obbligo di non arrecare danno al paziente -.

Era solo il medico che agiva, pensava, prescriveva e ometteva per il bene del malato, senza chiederne l’assenso. Il medico, forte della sue conoscenze cliniche, ha sempre avuto una tendenza naturale  a imporsi come arbitro indiscusso della salute del proprio malato. Egli si considera l’arbitro, il magister, il dominus, che, conscio della sua cultura scientifica e della sua competenza tecnica professionale, ritiene giusto e opportuno decidere per conto del paziente.

Va de sé, che questo tipo di relazione è fortemente squilibrata e asimmetrica: il malato è considerato molto passivamente, incapace di sapere e potere agire per la sua salute fisica e psichica.

Nella Grecia antica e nella stessa Roma, il medico si interessava del potere naturale del corpo, meccanismo di fluidi accoppiati, i cui squilibri – discrasia – erano in grado di spiegare l’insorgenza e l’evoluzione delle diverse malattie. Il rapporto verbale  era quasi annullato e l’atto terapeutico era intuitivo e stereotipato, centrato sulla ricerca della norma e del modello naturale della physis.

Da Galeno a Paracelso il metodo sostanzialmente non cambia e il rapporto medico paziente resta sempre di tipo paternalistico e sempre più risultava eticamente inadeguato, in quanto era lesivo del diritto individuale dell’autodeterminazione e dell’autonomia del paziente. La tecnologia a disposizione del medico era allora del tutto scarsa,  con una effettiva impotenza sul piano diagnostico terapeutico.

Il medico pre-moderno aveva certamente un forte legame col paziente e l’attività terapeutica coincideva spesso con l’anamnesi, da lui desunta quasi esclusivamente in modo interpretativo, mentre per il paziente la narrazione del disturbo agiva come forza catartica e come il migliore dei placebo.

Successivamente, con Pasteur e Koch nasce la medicina moderna, ma la relazione “medico-paziente” resta ancora “una storia di silenzio”, nel senso che il malato rimane, sostanzialmente nel rapporto col curante, soggetto passivo, che segue le direttive del medico, senza intervenire nel processo di cura, in quanto “di lui si fida e a lui si affida in silenzio e senza fare alcuna domanda”.

Secondo Veronesi, ”la medicina agli inizi del XX secolo si caratterizzava per tre grandi linee: la prima era la scienza, la seconda l’arte, la terza la magia, cioè la capacità di interagire col paziente tramite un ascendente particolare”. Man mano che il progresso tecnologico-scientifico ha consentito al medico di poter fare diagnosi di malattia d’organo sempre più corrette, l’aspetto sciamanico si riduceva  a vantaggio di quello professionale.

E’ noto che la reattività a un problema di salute si diversifica da persona a persona, in relazione a diverse variabili di tipo

  • biologico (età, sesso, razza),
  • sociologico (cultura, storia personale, famiglia, stile di vita),
  • psicologico (soglia del dolore e soggettività di manifestarlo e alla sua capacità di correlare anche on line i sintomi da lui accusati a una determinata malattia, stati d’animo, conoscenza, memoria),
  • spirituale (fede religiosa, etica).

Il rapporto medico-paziente è condizionato sia da tutte queste variabili, che coinvolgono sintomi fisici ed emotivi, che da numerosi altri elementi, quali il continuo progresso tecnologico, l’enfatizzazione delle procedure di prevenzione, le conoscenze mediate da internet, la consapevolezza del paziente di non essere più subalterno al medico attraverso il consenso informato.

Un rapporto asimmetrico è influenzato inoltre da altri fattori che agiscono come vere barriere della comunicazione, secondo la definizione di Thomas Gordon. Ricordiamo fra tutte la non compliance, cioè la scarsa o mancata disponibilità del paziente di accettare o di contestare le indicazioni del sanitario. Quando si verifica una situazione di noncompliance la relazione comunicativa diventa conflittuale, inutile, addirittura  inesistente e la relazione si estingue. Il paziente, in tali circostanze, non solo non accetta la prescrizione del medico cui si è rivolto, ma addirittura tenderà a opporvisi.

Va da sé che la noncompliance può instaurarsi quando ridotta è la non comprensione del messaggio: linguaggio eccessivamente tecnico, incomprensibilità del lingua in quanto malato straniero, specificità della malattia, acuta, cronica con turbe mnesiche-cognitive.
Il malato percepisce l’autoritarismo del medico, che ridurrebbe  i suoi comportamenti liberi e attua un meccanismo di difesa, definito da Brehm come “reattanza psicologica”, che tende a difendere la libertà minacciata o eliminata.

Il rapporto medico-paziente, per tutto questo, è oggi, secondo Edward Shorter, “uno scontro tormentato e rabbioso”, con la conclusione di rabbia e frustrazione di entrambi. Scrive Shorter “non me la prendo coi medici se non tentano di praticare la psicoterapia a livello formale. Li accuso di ignorare il potere terapeutico della visita medica in sé. La forza guaritrice della consultazione sta nella purificazione che il paziente ricava dal raccontare le proprie vicende a qualcuno di cui si fida come guaritore”.

Alcuni (o molti?) hanno attualmente sostituito il termine “malato”, “paziente”, con quello mercantile e del tutto improprio di “cliente” o “esigente”, nel senso che il soggetto sceglie e paga il medico, cui sottopone richieste specifiche e precise e da lui si attende altrettante risposte chiare, cui dovrebbero seguire risultati certi.
In questi termini, spesso o talora, il medico avverte questo rapporto soltanto come una esclusiva o prevalente richiesta di aiuto, mentre ignora quanto di esigenza relazionale in esso è racchiuso.

Noi riteniamo che le good intention gap (Davids) confermano che la medicina clinica deve estrinsecarsi certamente attraverso una relazione di aiuto, ma chiarisce anche che  “il bisogno di informazione” del medico avviene sia mediante un continuo aggiornamento, sia attraverso la conoscenza del malato e non solo della malattia.

Nel 1973, negli USA, l’American Hospital Association approvò la Carta dei Diritti del Paziente (Patient Bill of Rights), che reclama il diritto del paziente a essere informato e a essere partecipe delle decisioni terapeutiche che lo riguardano. Ne segue che il modello paternalistico viene sostituito da un etico contrattuale, caratterizzato da un rapporto relazionale.  
In un articolo apparso sul BJGP (British Journal of General Practice: 54:922-7, 2008) si legge che nonostante vi sia disponibilità di sempre più cure mediche appropriate e tecnologie sofisticate in continua evoluzione, che consentono diagnosi sempre più mirate, il 25-50% dei pazienti si reca dal medico, anche in assenza di evidenti cause patologiche, inficiando, in questa ultima situazione, sotto molti aspetti, un costruttivo rapporto relazionale.

E’ compito di un medico attento far si che il suo rapporto col paziente non si esaurisca in una asettica e fredda compilazione  di un  questionario, o in un frettoloso colloquio monocratico con la funzione prettamente passiva del paziente, ma sia in grado di esplorarne effettivamente il vissuto, comprendendone empaticamente le emozioni, i dubbi e le paure.

Attualmente, nota Palma Sbreccia, “la medicina sembra soffrire l’abbondanza di mezzi e la povertà di fini, c’è quindi bisogno di una riflessione critica, di una filosofia della medicina, cioè di un discorso sull’essere stesso della medicina, sulla sua essenza e specificità. La medicina non è solo un sapere né solo una tecnica e neppure la sintesi di entrambi perché è una relazione che sorge per il bisogno di cura”.  La medicina clinica attuale ha tentato di ricrearsi come scienza operativa attuando la metodologia dell’evidenza, cioè dell’uso cosciente, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze disponibili nel momento in cui si prendono delle decisioni riguardanti la cura di singoli pazienti. Sackett e coll. nel 1997 ha definito la medicina basata sull’evidenza (EBM) come l’uso coscienzioso, esplicito e accorto dell’attuale evidenza scientifica nel prendere le decisioni sull’assistenza dei singoli pazienti.
Secondo  Djulbegovic B. (Am J Med 1999; 106: 198-205) la EBM si propone di:

  • Trasformare il bisogno di informazioni in quesiti clinici ai quali si cerca di dare una risposta;
  • Individuare, con una metodologia corretta, la migliore evidenza che permetta di rispondere in modo appropriato a tale quesito;
  • Valutare criticamente la validità e l’utilità di tale evidenza;
  • Trasferire nella pratica clinica la raccomandazione fornita dall’evidenza;
  • Valutare la performance e l’impatto del processo nella pratica clinica (verifica dell’applicazione);
  • Trasformare il bisogno di informazioni in quesiti clinici ai quali bisogna cercare una risposta.

Di fronte a tali presupposti, viene spontaneo chiedersi, la Medicina Basata sull’Evidenza (EBM), le cui decisioni cliniche si basano sulle “migliori evidenze disponibili” e non sulle “migliori evidenze possibili”, pur con i suoi sistemi più avanzati  (POEMS – Patient Oriented Evidence that Matter) e con le CPG (Clinical Practice Guideliness), è esaustiva nel rapporto medico-paziente o, per contro, il modello biomedico attuale, fatto di eccessivo tecnicismo, di conoscenze scientifiche sempre più aggiornate e, sperimentalmente, più precise, non è sufficiente a risolvere la relazione?

Ricordiamo che per Slawson (J Farm Pract, 1994) la POEMS è determinata dal rapporto Relevance x Validity / Work, che esprime la potenziale utilità per la pratica clinica e riguarda gli interventi sanitari su end point clinicamente significativi:

  • eventi maggiori,
  • mortalità,
  • qualità di vita,
  • misura il tempo,
  • impegno mentale
  • costi.

Secondo Davids (JAMA, 1995) l’EBM viene invalidata se l’operatore sanitario non avverte  il bisogno di informazione o non è disponibile a integrare i risultati della letteratura nelle proprie decisioni.

Scrive Giorgio Bert “è ovvio che l’interazione tra medico e paziente sarà guidata dal medico, il quale si assumerà il compito di accompagnare il malato nelle scelte e nelle decisioni; ma accompagnare non significa spingere o costringere”. Il medico “moderno” attento ed empatico ha a sua disposizioni alcune metodologie di approccio che rendono efficace e produttivo il rapporto con il suo paziente e che danno anche nuovo senso alla Medicina Basata sull’Evidenza, quali il counseling e la Medicina Narrativa.

E’, però, altrettanto ovvio che a queste nuove “tecniche relazionali” egli deve avvicinarsi e apprenderle, con umiltà e senza arroganza.

Il “paziente moderno”, a sua volta, deve avere un’educazione terapeutica, che consente un trasferimento di competenze dal curante al malato, tale, come osserva Bert, “da determinare che nel rapporto tra i due, la dipendenza lasci il posto progressivamente alla responsabilizzazione e alla collaborazione”.  Il counseling permette al medico di attivare una relazione comunicativa sempre più proficua, utile per i due interlocutori, capace di evitare le modalità barriera e di migliorare sia l’ascolto che una atmosfera di fiducia e cooperazione tra loro.

Rita Charon, della Facoltà di Medicina della Columbia University, ha creato la cosiddetta Medicina Basata sulla Narrazione (NBM).  Oggi, una medicina umanizzata, attenta e non autoreferenziata, onnipotente e arrogante sa molto bene che, per essere olisticamente valida,  deve recuperare il rapporto medico paziente, dove la narrazione del proprio vissuto patologico da parta del paziente al medico è considerata al pari dei segni e dei sintomi clinici della malattia stessa.

La novità della NBM sta nel fatto che essa si riferisce non solo al vissuto del paziente, ma anche a quello del medico e alle loro reciproche relazioni. La relazione medico-paziente è spesso ostacolata e resa inutile ai fini della stessa diagnosi da vari fattori, quali la fretta, che riduce i tempi dedicati al rapporto relazionale, la distrazione da parte del sanitario – telefonate intercorse durante il colloquio, ad esempio -, il linguaggio eccessivamente tecnico utilizzato, l’interruzione che impedisce al paziente di continuare liberamente il suo discorso, l’esclusione del paziente dalla consulenza tra due specialisti che discutono del suo caso.

In estrema sintesi, si può dire che tra la medicina basata sul medico e quella incentrata sul paziente esistono due modelli teorici orientati l’uno sul “to cure” – curare – e l’altro “to care” – prendersi cura -, “preoccuparsi per l’altro”.

La medicina basata sul paziente, sviluppata negli anni ’50 del XX secolo da Carl Rogers, riteneva che un paziente poteva essere capito solo partendo dalle sue percezioni e da suoi sentimenti, cioè dal suo mondo fenomenologico e che il medico non doveva manipolare gli eventi per conto del paziente e doveva evitare di imporre obiettivi al malato durante la terapia.

Palma Sbreccia, docente di filosofia della salute presso il Camillianum scrive: “rispondere ai possibili abusi del paternalismo medico ricorrendo soltanto al principio di autonomia non serve a riequilibrare  la relazione medico-paziente, ma anzi sembra condannarla alla conflittualità, nella quale si confrontano due autonomie e due prospettive sulla malattia”.

In conclusione Hollender, rilevando l’esordio e la gravità della patologia, distingue tre livelli di rapporto medico-paziente:

  • nel primo livello, tipico dei casi di urgenza, coma, infarto del miocardico acuto o di interventi chirurgici, il rapporto è monodirezionale, dove attivo è solo il medico, mentre il paziente è passivo e inerte;
  • nel secondo livello, tipico delle malattie acute, esiste una relazione medico paziente, in quanto il malato è in grado di partecipare all’atto terapeutico, di esprimere opinioni personali e avere una buona compliance;
  • il terzo livello si attua nelle malattie croniche e si caratterizza per una mutua e reciproca partecipazione.

Infine è opportuno rilevare che qualunque sia il rapporto medico paziente è necessario sempre sottolineare

dove, quando e in che modo esso si manifesta e avviene

e osservare che non si può non comunicare. Anche un demente può esprimere “stracci” comunicativi non verbali, attraverso, gesti, mimica facciale, reazioni emotive – riso, pianto -, che ben interpretati possono fornire numerose, valide informazioni.
In questi casi, al medico viene richiesto tempo da dedicare alla relazione col malato, ascolto attivo, osservazione della comunicazione non verbale, empatia e capacità comunicativa.

 

Carmine Macchione
Direttore Scientifico ACSA Magazine,
già professore di Geriatria e Gerontologia dell’Università di Torino


Bibliografia

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