Mascherine sì, ma quali?
Antonio Vittorino Gaddi, Medico, Presidente Comitato Scientifico EuroGenLab, Bologna
Enrico Cipolla, Ingegnere Gestionale, Bologna
Maria Teresa Savo, Medico, Società Italiana di Telemedicina, Firenze
Fabio Capello, Medico, Direttore Centro Studi Internazionale Società Italiana Salute Digitale e Telemedicina, Bologna
Giovanni Rinaldi, Fisico, Bologna
Tommaso Diego Voci, Medico, Fondatore e Legale Rappresentante Associazione Interregionale Cardiologi e Specialisti Medici Ambulatoriali, Torino
Questo articolo è fortemente orientato ai Dottori in Medicina e Chirurgia, in Infermieristica, Terapia Fisica e a coloro che sono a contatto con i pazienti, ma ha implicazioni rilevanti per tutti i cittadini e le autorità di Sanità pubblica
“Online guidelines for face mask use to prevent COVID-19 in the general public are currently inconsistent across nations and regions, and have been changing often. Efforts to create greater standardization and clarity should be explored in light of the status of COVID-19 as a global pandemic” (Laestadius Linnea et al, JMRI May 25, 2020)
Non si può che condividere la preoccupazione della Collega d’oltreoceano: l’articolo da cui è tratta la frase è di fine Maggio; ad oggi non risulta che la situazione sia migliorata.
Dopo una serie di discussioni iniziali sull’inutilità delle mascherine (lavatevi la mani con acqua e sapone era il must assieme al famoso “starnutite nel gomito”) e una sottovalutazione sia del pericolo “per se” sia delle vie di contagio, in Italia si è passati a una fase, deleteria, di liberalizzazione nella produzione di mascherine che ha placebizzato alcune situazioni, e contribuito alla babelizzazione del mercato delle mascherine, e a speculazioni di vario genere.
Non ci risulta, rispetto ad altre Nazioni con altre regole per la produzione dei PPE, che in Italia oggi vi sia una situazione di disponibilità superiore o vi sia stata almeno una florida crescita delle imprese delle mascherine. Di sicuro la qualità media dei PPE disponibili è peggiorata.
Molti enti pubblici, e tra questi, encomiabile, il Policlinico S Orsola di Bologna, si sono proposti immediatamente come certificatori alternativi di qualità delle mascherine liberamente prodotte da chiunque, ma sono nati anche gli pseudo-certificatori, non solo tra privati più o meno rampanti, ma anche alcuni Politecnici, che rilasciano attestazioni non sempre idonee, non sempre firmate. Citiamo a titolo d’esempio la scelta di un Politecnico Italiano di non effettuare i test della Bacterial Filtration Efficiency come prescritto dalla norma EN con lo Stafiloccoco aureo (diametro del singolo cocco di 1-1,5 micron) ma con Escherichia Coli (lunghezza molto molto maggiore e dotato di fimbrie) ! Il tutto per garantire una efficienza filtrante che poi, di fatto, dovrebbe servire a classificare mascherine non per “elefanti” come il Coli, ma per animaletti di dimensioni sessanta volte più piccole. Che vergogna.
Inoltre non è stato risolto il problema più importante, che non è quello di avere mascherine in quantità sufficiente, ma anche efficaci ed efficienti, se mai riutilizzabili (a specifiche condizioni ovviamente) e, assieme, avere persone (dal cittadino all’operatore esposto a rischio) in grado di usarle al meglio. Il tutto senza creare in parallelo fonti di rischio biologico (come stigmatizzato dal British Medical Journal) né far credere alla gente di essere perfettamente difesi con aumento della esposizione e quindi del rischio oggettivo di contagio.
È un poco -i Colleghi Medici mi capiranno- come quanto l’autorità pubblica si danna per ridurre i tempi delle liste d’attesa (succede a ogni elezione…) – senza incidere in alcun modo sugli iter di cura per renderli più efficienti efficaci e realmente utili per il paziente.
Per capire meglio come funziona una mascherina si deve considerare che il SARS-CoV-2 -che resiste non solo nelle superfici, ma anche nell’aria, per ore[1]– può essere trasmesso
a) da particelle di dimensioni uguali o poco superiori al diametro del virus stesso cioè 0,1 micron (= 100 nm).
b) da aerosol (acqua o altro) o pollutants di dimensioni molto variabili, tra 0,5 e pochi micron.
c) da goccioline molto grandi (le fantomatiche droplets) e più appariscenti (da 5 a 50 micron) (che si vedono anche a occhio nudo per neflometria. L’occhio umano non risolve la particella ma coglie la luce che essa diffonde.
d) alla emissione di particelle sub-millimetriche o millimetriche di materiale organico (saliva, muco, ecc) potenzialmente infettante.
Quanto l’infezione possa essere trasmessa dalle particelle tipo a, b, c, d è da vedere. L’asserzione secondo cui il veicolo unico è quello sub c (contenuta in molti documenti ufficiali!) è poco corretta dal punto di vista scientifico. Infatti, va da sé che una alta densità di droplet emesse a breve distanza da un malato di polmonite da SARS CoV 2 sia altamente infettante, ma questo non vuole dire che questa, sia la via unica e preferenziale di contagio.
Si deve considerare infatti che particelle più fini, che pure contengono il virus, possono restare sospese nell’aria un tempo indefinito: con volumi aerodinamici di pochi micron la velocità di sedimentazione è così bassa (millimetri al secondo) che qualsiasi minima corrente d’aria le risospende; probabilmente queste particelle si “diluiscono” nell’aria circostante e quindi il Viral Load proporzionalmente si riduce, ma restano infettanti, e se mai giocano un ruolo fondamentale, in assenza di sistemi idonei di filtrazione dell’aria ambiente, nel determinare infezioni da sommazione di carichi virali piccoli ma ripetuti.
Si deve considerare che sotto colpo di tosse o starnuto le varie particelle vengono proiettate anche a metri di distanza, con velocità che arriva a 150 Km orari o più (forte starnuto). Le particelle così disperse non è detto che si depositino immediatamente (fatta salva la categoria (d) dell’elenco poco sopra. È quindi un errore molto grave concentrarsi solo sulla categoria “c”. Ancor peggio se lo si fa per giustificare l’impego di PPE fai da te molto poco efficienti anche sulla categoria “c”. Infatti alcuni articoli riscontrano la presenza di particelle virali nell’ambiente vicino al malato che tossisce indossando una mascherina chirurgica di alta qualità.
E’ opportuno specificare che abbiamo citato in modo abbastanza semplice alcuni degli elementi da prendere in considerazione su una lista di parametri molto più estesa, per i quali stiamo sviluppando modelli previsionali e mezzi di misura, cercando di andare a fondo in un settore dove quasi tutti (anche enti istituzionali di ricerca, autorità, imprese) stanno semplificando con una approssimazione e una assenza di scientificità che resteranno come esempio negativo nella storia della ricerca. Capire come si muovono nell’aria queste particelle è già difficile per i pollutants e lo è ancor di più per i virus.
Gli attuali riferimenti normativi riguardanti l’utilizzo di mascherine non includono le adeguate distinzioni in base alle diverse condizioni ambientali e i differenti gradi di rischio. I riferimenti si limitano ad affermare che dispositivi maggiormente filtranti siano adatti a persone più esposte, non garantendo così le adeguate linee guida per la corretta protezione. In aggiunta, l’utilizzo di mascherine fai da te può soltanto incrementare inconsapevolmente l’esposizione al rischio della persona e dei suoi vicini che si sentono protetti anche se non lo sono.
Per fornire le indicazioni necessarie sul corretto dispositivo da utilizzare in base alla persona e alla situazione in cui si trova, si dovrebbe indagare ulteriormente sulle caratteristiche tecniche dei differenti dispositivi e sui processi produttivi. Ad esempio, le attuali tecniche di fabbricazione delle mascherine chirurgiche includono l’utilizzo di filatura Spunbond (S) e di filatura Meltblown (M) per la realizzazione di prodotti costituiti da tre livelli complessivi. La tecnologia Spunbond porta alla formazione di tessuti non tessuti (TNT) in microfibre di spessore consistente e non adatto alla filtrazione del virus. Questi vengono generalmente impiegati per i layer esterni della mascherina o accoppiati in produzione con la tecnologia Meltblown. I TNT Meltblown, infatti, sono caratterizzati da una maggiore efficacia di filtrazione rispetto agli Spunbond e quindi maggiormente deputati alle funzioni di filtrazione. Se per le mascherine chirurgiche l’utilizzo di TNT S-M o S-M-S in microfibre è largamente impiegato, le tecniche di produzione dei tessuti per i dispositivi di protezione FFP2,FFP3 o N95 prevedono anche l’inclusione di processi di elettrospinnig per realizzazione di TNT in nanofibre capaci di incrementare l’efficacia di filtrazione, raggiungendo standard differenti.
Riteniamo che “vedere le mascherine” possa consentire a tutti di farsi una idea più precisa di quanto possano essere le capacità filtranti delle singole mascherine, anche quando tutte appartenenti alla stessa classe (surgical face mask, nell’esempio). Si deve ricordare che le mascherine “filtrano” le particella non solo bloccando il particolato o i batteri e virus o allergeni su base dimensionale (filtrazione propriamente detta) ma attraverso meccanismi di intercettazione, impatto, sedimentazione e diffusione che dipendono strettamente dalle caratteristiche chimico fisiche del particolato e delle fibre e dalla densità di fibre presenti nella mascherina. La filtrazione, oltre che meccanica, può essere elettrostatica, per adsorbimento o per affinità e può o meno alterare le caratteristiche delle particelle filtrate, fino ad avere (in teoria) un effetto biocida.
Tutto questo però viene affidato a una specifica struttura: la mascherina appunto, che agisce, comunque, pe contatto o interazione a brevissima distanza con i “filtrandi”. Dunque la struttura base della mascherina deve essere idonea.
Figura 1: foto 1 mascherina con strato “filtrante” (!) spugnoso a cellule aperte, con vistose impurità di grandi dimensioni (l’ingrandimento è di poche decine di lineari), del tutto inidonea. Foto 2: mascherina costituita da tre strati identici (uno solo è rappresentato in figura) di spunbond abbastanza grossolano. Foto 3: un forte ingrandimento di uno strato spunbond; si osservi che all’ingrandimento dato un batterio (molto più grande di un virus) sarebbe così piccolo da non essere quasi visibile!Foto 4 il tipico strato esterno delle mascherine più vendute, trasparente a batteri miceti e a moltissimi pollini.
Figura 1: mascherine di discutibile efficacia a basso o bassissimo ingrandimento. In queste foto un batterio non sarebbe visualizzabile (foto 1 e 2 = macrofotografie riprese con apparecchiatura digitale in episcopia; foto 3 e 4 = foto micrografie a basso ingrandimento in luce trasmessa)
Mascherine basate solo su strutture come quelle sopra indicate in foto risultano del tutto inefficienti e inutili anche per filtrare particelle batteriche, per numerosi miceti, svariati pollini (salvo i più grandi, che spesso superano i 100 micron).
Per quanto attiene gli strati filtrati, ottenuti da tecniche diverse tra cui il MeltBlown (con microfibre disposte in modo casuale) si possono del pari avere differenze di qualità e di capacità filtrante davvero notevoli.
Tutte le fotografie qui sotto riportate si riferiscono a mascherine proposte come anticovid e in commercio da poco, ed eccezione di quella sottostante, utilizzata a fine didattico, con l’aggiunta di un emoticon molto preoccupato e alcuni pallini gialli che, all’ingrandimento dato (circa 130 lineari) rappresenta la dimensione di batteri molto molto grandi. A questi ingrandimenti il SARSCoV-2 sarebbe del tutto invisibile. Eppure superano alcune prove “EN” se mai fatte in casa o con criteri difformi e vengono date alla gente.
Figura 2: strati filtranti o pseudofiltranti di mascherine (fotomicrografie in luce trasmessa e in campo scuro e luce polarizzata a medi basso ingrandimento)
Aggiungiamo qui sono un esempio di mascherina venduta come professionale (equivalente a una NK95) e che vanta migliori proprietà filtranti per la presenza di carbone attivo. Quello che viene illustrato i lo strato interno, verso la bocca, che è pronto a cedere alle correnti inalatorie le particelle di carbone, oltre ai materiali non filtrati dagli strati precedenti. CAVEAT.
Figura 3: immagini che non si vorrebbero vedere! Come una mascherina può cedere particelle di carbone all’albero tracheobronchiale (fotomicrografia in campo chiaro; la foto è riferita allo strato interno, lato bocca, di questa presunta mascherina professionale)
Gli strati filtranti, fotografati da alcune delle mascherine migliori e meglio certificate del momento, dovrebbero essere come quelli indicati qui sotto, costituiti da TNT a incrocio casuale, di grande compattezza, costituito da microfibre in un caso di un range di diametri abbastanza omogeneo e nell’altro (a sinistra) di diverso diametro medio (foto effettuate con tecniche specifiche per evidenziare la trama delle microfibre). Lo spessore di questi strati deve essere tale da massimizzare la probabilità di interazione tra lo strato filtrante stesso e le particelle (particolato, virus) da filtrare. Nelle foto se ne vede a fuoco solo un ventesimo dello spessore totale.
Figura 4: Luce polarizzata per evidenziare l’ottima disposizione di strati filtranti compatti e ricchi di microfibre ben disposte.
Le tecnologie di oggi ci consentirebbero di arrivare molto vicini alle dimensioni di un virus, l’immagine seguente, ad altissimo ingrandimento (1400 lineari circa in luce di 405 nm) evidenzia, assieme ad alcune microfibre portanti (si intravedono a sinistra nella foto come pali che si incrociano, ma decisamente sfocati) un sottile reticolato centrale di nanofibre di dimensione non molto superiore a quelle del virus. Siamo poco sopra ai limiti di risoluzione teorica della microscopia ottica. Le granulazioni nella foto attorno all’area centrale con le microfibre, sono un artefatto.
Figura 5: fotomicrografia ad altissimo ingrandimento in luce trasmessa di 405 nm e con correzione dei colori e del contrasto in post-produzione. Si evidenziano fibre centrali, nel piano di clivaggio inferiore a quello dei granuli (artefatto) di dimensione dell’ordine di grandezza di quello dei virus. Lo strato di nanofibe è stato deposto in elettrospinning dal Dr Belcari e dal Prof Zucchelli del CIRI-MAM dell’Ateneo di Bologna
Va da sé che le capacità di interagire con le micro- e nano-particelle cambia profondamente tra le prime immagini, pur riferite a prodotti oggi in uso e con presunte capacità difensive, e le ultime. Tutto questo per far capire con immagini che si può e si deve fare molto meglio, se vogliamo battere le malattie virali.
La letteratura conferma che le mascherine possono avere un grande peso nel controllo della pandemia ma anche quanto detto sopra, ovvero che i risultati sono migliori in funzione del tipo di maschera. Di conseguenza una notevole riduzione del rischio di infezione potrebbe avvenire incrementando l’utilizzo di dispositivi superiori (N95,FFP3…) a discapito delle mascherine chirurgiche usa e getta o simili. Inoltre, il continuo utilizzo di dispositivi inappropriati, favorito in parte anche da decreti nazionali, comporta attualmente conseguenze molteplici che spaziano dalla gestione del mercato delle mascherine fino ai side effects legati all’impiego di PPE insufficienti o senza sufficienti istruzioni per l’uso.
Alla luce di ciò, risulta di particolare utilità lo sviluppo di una linea di mascherine antivirali che presenti specifiche differenti per i diversi obiettivi rispetto alla pandemia, come illustrato nella tabella sottostante.
Tra i fenomeni da considerare vi è anche la Variolation, che può trovare una giustificazione ove la riduzione del VL ottenibile con mascherine possa comunque favorire una più efficiente risposta da parte dell’immunità adattiva. È evidente che se questa ultima condizione è comunque molto peggiore di quella ottimale di non contagiarsi e che -anche se vera- non potrebbe mai essere affidata al caso, ovvero all’impiego di mascherine più o meno trasparenti al virus secondo modelli aleatori e non controllabili.
Questi aspetti devono essere oggetto di analisi attentissima, anche in funzione del problema della esposizione a dosi basse ripetute.
Vi sono infine implicazioni di carattere etico/legale, di responsabilità civile e penale rispetto all’uso di PPE impropri. La materia è in realtà molto delicata ma molto rilevante, considerando che i PPE di difesa personale rappresentano in questo momento una delle risorse più efficaci a disposizione.
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[1] Poche ore in aria, anche decine di ore su superfici plastiche o di alcuni metalli come l’acciaio; meno tempo sulla carta e sulle banconote. Servirebbero molti esperimenti per capire meglio le caratteristiche di resistenza del VIRUS e la sua capacità residua di infettare se portato a contatto con le mucose.